Italian Graffiti / In memoria di Dino Pistamiglio
Martedì 29 Agosto 2023
Nel silenzio delle sue solitudini, se n'è andato un altro cantore. Tra i tanti che l'avevano conosciuto, in pochi lo ricordavano ancora. Eppure Dino ha avuto un ruolo molto importante: un lascito prezioso e il rimpianto per quanto non ha potuto dare.
Gianfranco Colasante
Quasi un destino nel nome, quello di Dino: con un cognome così come non poteva occuparsi di atletica? O meglio, innamorarsene, il più duraturo amore della sua tribolata esistenza. Non posso dire di essergli stato amico, ma sicuramente ha fatto parte della cerchia rassicurante delle mie frequentazioni. Quella che si attivava in occasione delle grandi manifestazioni, Europei, Mondiali e sopratutto Olimpiadi.
Ne ho un ricordo molto nitido, l'aspetto più simile a quello di un professore di liceo che di un cronista, una lucidità folgorante, una memoria sconfinata, un eloquio frenetico.
Parto dalla foto, e dai suoi contrasti, ritrovata tra le mie carte e che qualcuno ha scattato nella tribuna stampa dei Giochi di Barcellona. Dietro una scritta incomprensibile. Si vede un assorto Dino, a fianco di Giacomo Crosa, allora in Mediaset, ed il sottoscritto, all'epoca della barba. Malgrado non ci vedesse di frequente, restava sempre viva la complicità che a quel tempo era ancora tratto distintivo di chi viveva e respirava atletica. Ricordo, ma non so più dire in quale occasione, un viaggio di trasferimento in pullmann: parlò sempre lui, come se ci fossimo lasciati appena la sera prima, parlando di se e della sua vita con una franchezza e dettagli che si facevano imbarazzo. Credo fosse il suo modo di ammetterti nel suo mondo.
Ho incontrato per la prima volta Dino sui gradoni dell'Acquacetosa - il nostro campo della via Paal - a metà degli anni Sessanta durante una finale del Campionato di Società. Più che presentarmelo (non usava) me lo indicò Marcello Pagani che allora era guida spirituale e tecnica del CS Fiat. Mi colpì, rammento, ch'era l'unico nel campo ad indossare giacca e cravatta, e che si rivolgeva ai suoi in stretto dialetto piemontese. Che forse utilizzava per darsi maggiore sicurezza e superare quella patina di timidezza nascosta, e avvertita, dietro occhiali alla Bassani,
Dino era caparbiamente torinese. Era nato il 3 gennaio del 1946 in una famiglia di origine pugliese salita al Nord, col padre dirigente della Fiat, primo di due fratelli, Francesco e Laura. Il passo dal campo al giornalismo, se non agevole, non fu lungo. Lo racconta un ricordo che Gianni Romeo - che gli è stato maestro e mentore - ha affidato in queste ore ai social. Per non perderlo lo riprendo integralmente:
"Avevo aperto a Dino le porte di Tuttosport dopo le Olimpiadi di Messico '68, l'aveva preceduto Giorgio Reineri di poco. Ormai, da redattore capo, cedevo volentieri i miei spazi del recinto che al giovane quotidiano sportivo torinese conquistato dal grande Renato Morino, era considerato sempre un santuario. Altri impegni per me stavano premendo. Un bel terzetto, però, il nostro! Così diversi, così integrati. Dino completò il gruppo con la ferocia della sua precisione storico-statistica, i suoi rimbrotti affettuosi non ci mancavano mai al momento giusto. Poi Giorgio prese la strada del Giorno, Dino cominciò ad occupare quasi interamente l'Atletica. All'impegno prefessionale univa un affettuoso cameratismo al quale era difficile sottrarsi. Tuttosport era il suo mondo ormai. L'atletica condita da una mente affamata di sapere che era il suo archivio personale. Un archivio che merita un riconoscimento gli dissi il giorno in cui Nebiolo mi invitò in Cina, da vicedirettore, con gli azzurri. E girai l'invito a chi ne aveva guadagnato il diritto sul campo. Dieci anni dopo, quando ero ormai alla Stampa, mi ringraziava ancora a modo suo, bussando alla porta di casa prima di Natale con due libri per i miei giovani figli. Non ci sono mai state lunghe parole fra di noi, ma occhi e sguardi, che conservo preziosi".
Alle parole di Gianni, è giusto aggiungere quelle che ha indirizzato alla cerchia degli amici Giorgio Cimbrico che di Dino - molto più di altri - è stato quasi gemello astrale. "Oggi ho pianto", mi ha detto chiudendo il telefono. "Con Dino ho girato parecchio mondo e da bravi voyeurs dell'atletica ci scambiavamo risultati trovati qua e là al tempo in cui la Rete non esisteva ancora. Non so nemmeno cosa scrivo, sono molto triste. Non lo vedevo dall'estate del 1994, Europei a Helsinki. Faccio quindici giorni di ferie e poi ci sentiamo, mi aveva detto. Le ferie sono durate quasi trent'anni, e in questo periodo spesso pensavo a lui, alla sua solitudine, al suo male oscuro, alla sua sofferenza, alle sue torrenziali telefonate, ai suoi amori proibiti, alle sigarette che mi ha scroccato. Vecchia roccia, mi diceva sempre. Meglio che smetta".
Dino molto ha dato e molto ha lasciato (ricordo una sua storia sull'Atletica pubblicata da Longanesi e commissionatagli da Ormezzano che dirigeva quella collana sportiva). Molto meno ha ricevuto. Il destino è stato agro e crudele con lui, confinandolo in un angolo e privandolo di tanto se non di tutto. Che almeno riposi in pace e continui a vivere nella memoria di chi lo ha incontrato. Come Berra nel 1998 con gli Europei, si è spento mentre a Budapest si chiudevano i Mondiali. Da giovedì dormirà per sempre al Monumentale.
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