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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
“Il più colto uomo di sport”




Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





Italian Graffiti / Permettete che vi racconti una storia

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Giovedì 10 Novembre 2022


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Riemersa dal giardino della memoria –, per chi c’era e l’ha dimenticato e per chi non c’era o forse non era ancora nato –, una storia di più di quarant’anni fa. Che narra di un giornale di atletica, o meglio, “Il Giornale dell’Atletica”. Dunque, …


Gianfranco Colasante

Eravamo all’inizio degli anni Ottanta, quelli che a fine decennio canterà a San Remo un ispirerato Raf. La data esatta è il 15 Marzo 1981, come dire più di quarant’anni fa, quando tutto era ancora diverso e genuino: quel giorno apparve in edicola “Il Giornale dell’Atletica”. Sì, proprio in edicola: anche quella una prima volta. Con una premessa: tra le centinaia di pubblicazioni sulle quali (indegnamente) ho lasciato la firma, quel giornale è quello che più m’è rimasto nel cuore. Forse perché è proprio da lì che arrivava. Ma cominciamo dal principio.


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Tutto nacque da una chiacchierata con un fantasioso collega che dirigeva una piccola agenzia di comunicazione (la Gedital SpA) che molto si alimentava con l’AGC, l’agenzia quotidiana del CONI erede della AIS del primo dopoguerra fondata da Alberto Ugolini. Quel dinamico e (fin troppo) debordante collega si chiama Giancarlo Galdi (penultimo esponente di una dinastia, parimenti con i Giubilo, che ha marcato il giornalismo romano). Aveva appena ricevuto per la sua agenzia – ordinandola in America – un’apparecchiatura IBM per la composizione grafica appena messa sul mercato e mi chiedeva qualche suggerimento per utilizzarla al meglio.

 

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A quel tempo, ancorato alle vecchie e sferraglianti linotype a piombo, scoprii presto che si trattava di un salto nel futuro, primo attraversamento della linea (ma non si sapeva ancora) tra analogico e digitale. Nella fattispecie, si trattava di un grosso cubo azzurro da cui sporgeva solo una tastiera. Nessuno schermo, ma solo una finestra luminosa nella quale scorrevano via via i testi che una giovane tastierista memorizzava. Salto a pie’ pari altri dettagli: la vera novità era che la macchina, una volta impostati caratteri, corpi e giustezze, era in grado di restituire i testi già sui trasparenti pronti per il montaggio sul tavolo luminoso. Per chi ha un minimo di dimestichezza, era come uscire dal sottoscala e salire su un’astronave.

Così prese vita quella testata – accarezzata per anni –, registrata in Tribunale a marzo 1981: un autentico trionfo dell’artigianato e della fantasia. Ma volevo fare qualcosa che non c’era stato prima (scusate, una mia debolezza che mi perseguita da sempre). Così pensai ad un formato inusuale e inedito, 33 cm d’altezza e 23,5 di larghezza, lo stesso del bollettino “Atletica” riesumato da Bruno Zauli nel Gennaio 1946: un formato da giornale più che da rivista, ma ammodernato. La trovata – anche per tenere al minimo le spese – era ricavare le 16 pagine del giornale da solo foglio 70x100 stampato a “quattro colori solo in bianca”, come si diceva allora. La “volta” restava in nero.

 

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Ma la vera caratteristica era la frequenza scelta: quindicinale (mutuata dal Track&Field News di quegli anni). Poi l’articolazione su rubriche diverse e combinate tra loro, soprattutto, su una grafica irriverente e pretenziosa – mai vista prima per quel tipo di pubblicazione – della quale vi propongo di seguito qualche esempio. Copertina a colori, nove/dieci pagine per l’attività italiana, il resto per l’estero. Un dettaglio maniacale su notizie, informazioni e statistiche. Ricordo per i distratti, che Internet non era neppure nella fantasia di Verne e, al massimo, la comunicazione poteva contare solo sugli inaffidabili fax.

Questa la cornice. Il lavoro non era poco, ma divertente e molto stimolante: i momenti più impegnativi – oltre all’ideazione e alla stesura del materiale –, era la serata che sconfinava nella notte richiesta per il montaggio su un “menabò” di base (termine oggi scomparso) che facevo da solo sul tavolo luminoso millimetrato. La stampa per un foglio solo e la confezione delle 3000 copie, affidata ad una piccola cooperativa di zona, richiedevano poche ore. Poi i giornali partivano per le edicole romane (e solo per quelle) al costo di 1000 lire a copia (un quotidiano allora ne costava 300). Molti anni dopo, Valerio Piccioni mi disse d’averlo trovato e acquistato proprio in edicola: lieto di aver contribuito in piccola parte ad una vocazione innata.

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Ma nell’impresa non ero solo. Il primo a cui mi rivolsi fu Alfredo Berra: il “profeta” riprese a scrivere proprio per il “Giornale dell’Atletica”, dopo che assieme a Giorgio Lo Giudice (vero motore di quell’operazione) – e su segnalazione di Gianni Romeo – lo avevamo “ritrovato” sulle montagne piemontesi e riportato a Roma a bordo di un’autombulanza messa a disposizione da Sandro Bartolozzi, creando attorno a lui quel gruppo di amici che lo ha sostenuto fino agli ultimi giorni.

 

Poi vennero altri, da Vanni Lóriga ad un giovane Oliviero Beha, da Ottavio Castellini (che ancora non mi aveva cancellato dalla sua cerchia: mai saputo il motivo) ad Eugenio Capodacqua, allo stesso Giorgio, ad Erminio Marcucci, a Gianni Rossi (che lasciò presto lo sport per una importante carriera in RAI), a Sandro Pellacani e a due giovani che muovevano su quelle poche pagine i primi passi: Raoul Leoni e Marco Martini. Sperando di non aver dimenticato nessuno. La regola era ferrea per tutti: scrivere per il “Giornale” era gratis, nel senso che non si doveva pagare nulla.

Ma come tutte le storie, specie le più belle, anche quella ebbe una fine. Semmai quella che toccò in sorte al “Giornale” fu più breve delle altre. Videro la luce solo quattro numeri: il quinto, già pronto, rimase melanconicamente sul tavolo. I costi non proprio indifferenti di stampa e distribuzione, ebbero la meglio sulla passione e sull’incoscienza dell’impresa. Come capita sovente. Resta intatto il piacere del ricordo (di cui vi ho fatto partecipi) e, più in fondo, un certo amaro rimpianto per quella lontana stagione. Più di quaranta anni fa.

 

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