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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
“Il più colto uomo di sport”




Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





I sentieri di Cimbricus / Quando ancora c'erano le rondini

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Lunedì 3 Ottobre 2022


rondini 

Qui lo sport c’entra poco. Ma qui tutto ruota attorno al sentimento cardine che fa dello sport il giardino dell’anima: l’umanità. Spicciola, come quella che un tempo scandiva la vita quotidiana di ciascuno. E che abbiamo barattato con un tablet.

Giorgio Cimbrico

Parecchi anni fa due giornalisti del Piccolo scrissero un libro “L’Austria era un paese ordinato”. Musil la pensava in un altro modo ma è stato bello leggerlo ed è un peccato che non lo ritrovi più. Comunque, non è necessario essere triestini né andare a pescare e così lontano nel tempo per ascoltare i violini d’autunno che riempiono il cuore di un monotono languore. E per sbarcare nel nostro ieri. 

Vivevamo al sesto piano senza ascensore in un quartiere dove la parrocchia era una vecchia abbazia extra moenia e la sezione del partito era in un castelletto neogotico. Mio padre rideva quando mettevano fuori il cartello: “Qui vi insegniamo a votare”. Non ho mai capito per chi votasse mio padre. Credo che una volta, abbindolato da un fratello più ricco, avesse votato per Malagodi, ma di solito preferiva La Malfa. Mia madre votava per il PSI di Nenni e più in là deve aver votato per il PCI. 

Nel quartiere si conosceva a malapena l’esistenza di un’altra quadra cittadina, il Genoa. A Marassi, 600 lire gli adulti, gratis i ragazzi, ho visto un Sampdoria-Inter 4-2, quattro gol di Brighenti, insieme ad altri 57.000. Le commissioni di controllo non esistevano e la sostenibilità consisteva nel sostenersi l’uno con l’altro.  

I miei non erano religiosi ma quando venne l’età della comunione vennero in chiesa e scovarono i quattrini per un rinfresco nella sala per ricevimenti più prestigiosa della città. Tutti e due fumavano “Nazionali Esportazione”, quelle con il pacchetto verde e il veliero nero, senza filtro. Un pacchetto di “Turmac”, regalato da non so chi, rimase a lungo quasi intonso. Mio padre mi lasciava il resto e io compravo il Grande Blek in quel formato a striscia che costava 20 lire. Ogni tanto uscivano le raccolte a 200.

Con un’altra rampa di scale arrivavamo su un grande terrazzo. In estate spesso la cena era lì. Andavamo a comprare un pezzo di ghiaccio dal carbonaio e i miei ne mettevano dei pezzetti in un rosso leggero, bardolino direi. Il resto serviva per l’anguria. Da quel terrazzo, per una notte intera, vedemmo un serbatoio di greggio che, colpito da un fulmine, lanciava verso il cielo colonne di fiamme alte trecento metri. In piedi a lungo, ad aspettare. Da lì vedemmo anche l’eclisse, quella che servì a Pasolini per il “Vangelo secondo Matteo”: gli esperti dicevano di ripararsi gli occhi con delle lenti affumicate. 

Andavamo spesso al cinema perché nel nostro quartiere ce n’erano tre e uno, grande e con i palchi, era a un tiro di sasso da casa: “I Dieci Comandamenti”, “Ben Hur”, “Lawrence d’Arabia”, “Alamo”, molti western, “Il Giorno più lungo” una vigilia di Natale, prima di una nevicata. Era un mondo ordinato: a Natale nevicava. 

In centro si andava poco. “In centro c’è la rivoluzione” disse una vicina a mia madre. Era la fine di giugno del ’60. Andammo quando aprì la Rinascente – dopo che avevano demolito il quartiere di Balilla – per andare sulle scale mobili che sembravano miracolose. “Guardate che gli americani ce l’hanno da quarant’anni” disse uno di quelli che sanno sempre tutto. Ma noi eravamo felici e al ritorno, nei vicoli, mia madre mi comprò un krapf con la panna. 

I vicoli erano una miniera. Una volta, con mio padre incontrammo Loi, un’altra volta Coppi: a Genova si sentivano di casa. Coppi mi fece una carezza sulla testa. Aveva un bellissimo cappotto. Ho saputo che era morto dalla radio mentre mia madre mi dava una strigliata con la spugna. La radio era accesa. La televisione non l’avevamo ancora: sarebbe arrivata qualche mese dopo per le Olimpiadi Roma. E dalla televisione arrivò la notizia che avevano ammazzato Kennedy. Mia madre stava cucendo.

Mio padre lavorava per l’OEG, che sarebbe confluita nell’ENEL. A fine mese tornava con la busta paga e dentro c’erano i soldi veri, un piccolo fascio di banconote da diecimila, rosa e molto grandi, che finivano in un cassetto. Più tardi, ebbe i sette anni che spettavano ai combattenti perché Genova venne considerata zona di guerra e lui stava sui monti appena alle spalle della città con le batterie dei 380, ad aspettare gli inglesi che non sarebbero tornati. Così si mise ad amministrare una riserva di caccia e agricola. Figlio di un fattore, come Maigret. 

D’inverno avevamo molto freddo: la casa era grande e non avevamo il riscaldamento, ma aveva altri pregi: con l’arrivo della primavera era piena di strida di rondini (le rondini, in realtà, garriscono) che facevano il nido sotto il nostro cornicione e si affannavano a portare cibo ai piccoli. Ogni tanto ne trovavamo qualcuno morto. 

Mio padre amava la boxe (prima di andare sotto la armi aveva combattuto da peso medio e il suo preferito era Carmen Basilio) e il ciclismo: ogni volta che passava il Giro, andavamo. Era un attimo ma lui riusciva sempre a scorgere qualcuno. “Quello è Darrigade”. Il Giro dell’Appenino era un momento importante e occupava tutto il fine settimana, con desinare sull’erba, al Passo della Bocchetta, sfiancante. Mia madre scoprì lo sport nel 1960 e non se ne staccò più. Berruti l’ho visto con lei. 

Ho trascritto solo quello che mi sono detto questa notte. Faticavo a prender sonno. Non è vero che uno rivive la propria vita in un attimo mentre sta morendo. Capita anche prima.  

 

 

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