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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
“Il più colto uomo di sport”




Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





Antologia / "Sono vent'anni che sogno di scrivere questo articolo ..."

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Sabato 3 Settembre 2022

 

berruti 2


(gfc) Alle ore 18,00 del 3 Settembre 1960, il ventunenne Livio Berruti vinceva la finale olimpica dei 200 metri correndo in 20”5 ed eguagliando il primato mondiale, già pareggiato due ore e un quarto prima riportando la semifinale. Il ricordo e la celebrazione di quell’impresa lontana 62 anni – entrata e saldamente rimasta nel mito dello sport italiano – l’affidiamo a questa pagina di felice sintesi tra atletica "culto dell’uomo" e l’ispirato io narrante di Giôannbrerafucarlo.

Gianni Brera

“Giorgio Oberweger ed io eravamo così amici – lui commissario tecnico della nazionale di atletica e io povero untorello al seguito – che un giorno mi fece arrivare in Cecoslovacchia con il tesserino di Carlo Manara, velocista milanese. In Cecoslovacchia pensavano ancora che molti comunisti si fossero iscritti per avere un alloggio dai russi: poco dopo il nostro incontro a Praga, venne defenestrato il figlio di Benes e questo solo si può dire sugli alloggi dati ai comunisti: che era diventato libero anche quello di Benes figlio.

“Molto unito a Ober e a me era anche Pasqualino Stassano, un pallido tortonese nato biondo a Potenza. Pasqualino era visitato durante il sonno da ‘entità’ che lo facevano parlare lingue fra loro diversissime e sicuramente sconosciute a lui e a tutti noi. Durante la guerra, i compagni avevano carissimo Pasqualino perché, nell’imminenza di un bombardamento, ‘l’entità’ che parlava dentro di lui consigliava di cambiare subito posto oppure di stare tranquillamente dov’erano, perché non sarebbero cadute bombe.

“Oberweger, Stassano ed io mangiavamo volentieri alla stessa tavola e bevevamo anche più volentieri dalla stessa bottiglia, Parlavamo di atletica in tono quasi sempre ispirato ed eravamo così logici nelle nostre intuizioni che molte volte ci trovavamo ad avere vinto prodigiose medaglie olimpiche. Se il medagliere dell’Italia fosse stato minimamente ispirato dalle nostre vittorie a tavolino, oggi non vi sarebbe barba di nazione avversaria in grado di competere con la nostra amata patria!

“Purtroppo ero cosciente di questo anche quando Ober mi disse (eravamo a pranzo dalla sora Cecilia) che Livio Berruti avrebbe vinto i 200 olimpici di Roma con almeno due metri di vantaggio. Io presi debita nota e volli anche sapere quanti chili d’oro erano stati devoluti a Livio in vita di quell’impresa. Ober mi precisò persino il conio di certe aquile messicane e poi cambiammo discorso. […] ed io ascrissi la vittoria di Berruti alle molte che io e Ober avevamo già riportate in quindici anni di assidue farneticazioni.

“Poi venne l’Olimpiade e Livio Berruti esaltò puntualmente la nostra devozione di praticanti il culto dell’uomo. Fu lui il mio primo abatino. Colsi al volo Stassano che si stava immolando rigido e fuori di coscienza sugli spuntoni dell’inferriata fra gli spalti e la tribuna stampa. I colleghi stranieri vennero intorno a chiedere se si trattava di epilessia. ‘Peggio! – io dissi – si tratta di orgoglio olimpico’.

“Stassano parlava una lingua a me ignota e ogni tanto springava per raggiungere l’inferriata. Della finale di Berruti ricordo tutto e niente, come succede dei sogni troppo belli. Sperai che Pedrazzini, lo starter, gli sparasse nelle chiappe (espressione del gergo) e questo non avvenne perché tutti su questa terra sanno che uno starter di casa spara nelle chiappe degli atleti di casa e quindi partono tutti come se i pallini toccassero anche a loro.

“La curva fu un prodigio da lasciare secchi anche quelli non pluriabitati come Stassano. Io presi il tempo (10”4) e subito lo cancellai perché all’uscita di curva mi sentii improvvisamente augure: tre piccioni beccottanti sulla pista si trapparono dal suolo proprio nell’istante in cui Berruti, volitando a sua volta, pareva se ne dovesse schermire. Un negrone aitante lo incalzava – come pensavo – ululando improperi.

Il meglio possibile in fatto di corsa veloce, ortodossa fin quasi al lezio, venne esibito dal mio abatino, secondo una successione di salti che mi pareva fondata ansia di volo. Perdette coordinazione solo quando lo ritenne possibile, dopo aver strappato il filo di lana con l’ultimo battito di un cuore al calor bianco; allora finì ruzzolando con qualcosa di me che la paura strizzava ignobilmente.

“Sudai come mi accadeva dopo un ben riuscito lancio dall’aereo, Colsi al volo Pasquale Stassano deciso a immolarsi sugli spuntoni della cinta. Risposi ai colleghi interessati al suo raptus. Poi, dovetti scrivere: tre, quattro colonne, non ricordo. ‘Sono vent’anni – incominciavo – che sogno di scrivere questo articolo. E ho l’anima che sfrigola sul cervello rovente …’.

“Berruti è vercellese si risaia come io sono pavese di risaia. Lui è nato a Torino; io, nel bel paese dove il t’là suona (o thlà! eccotelo qua), Ho nei confronti di Berruti il rimorso di non averne celebrato la vittoria con tre mesi di anticipo come avrei potuto secondo le garanzie di Ober, suo sublime centauro. E sento pure che quel rimorso è gratuito. Niente al mondo porta scalogna, come la previsione di una vittoria, anche sicura.

“Ho adorato Berruti secondo i precisi dettami del culto dell’uomo, che esige lealtà e riconoscenza. In verità vi dito di aver raramente visto atleti volitare nello stile coordinato e raro di questo abatino che per mero orgoglio fu ancora primo dei bianchi e degli europei sui 200 metri di Tokio, per i quali sembrava meglio vocato Sergio Ottolina.

[…]

La Repubblica, 17 Agosto 1982
(articolo pubblicato sotto il titolo “Lasciate che Mennea rincorra la sua rabbia”)



 

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