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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
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Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
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I sentieri di Cimbricus / "Don’t cry for me, Argentina"

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Mercoledì 31 Agosto 2022

 

argentina-all blacks 

Non piangete per l’Argentina, fatele i complimenti. E’ il paese, lontano e vicino, dalla storia tormentata che ha prodotto i campioni e, pazzo e anarcoide com’è, le squadre che hanno inferto zampate su risultati memorabili. 

Giorgio Cimbrico

L’ultimo è quello dei Pumas in Nuova Zelanda, che hanno trasformato la crisi degli All Blacks in un itinerario nel delirio: da padroni a rassegnai incassatori di sconfitte, sei nelle ultime otto partite. E quel che più colpisce, tre in casa, due verde Irlanda e una dei Pumas che nessuno ha mai capito perché si chiamino Pumas, visto che sullo stemma della Uar, Unione Argentina Rugby, c’è un giaguaro. Forse la colpa è di un vecchio giornalista sudafricano, ma la cosa non è chiara e così, affascinante. 

Gli argentini non hanno nazionalizzati o equiparati perché i nazionalizzati, gli equiparati sono l’Argentina: Spagnoli, baschi, genovesi, piemontesi, napoletani, lituani, tedeschi ebrei, russi, balcanici, irlandesi, qualche inglese che ha portato laggiù il calcio, il rugby, l’hockey su prato, il polo. Tutto assorbito, sviluppato dentro a una storia spesso drammatica, brutale, attraversata da populismo, giunte militari, orrori, persino una guerra ai confini del mondo.

Forse qualcuno non lo ricorda ma hanno vinto due volte la maratona olimpica con Zabala e con Cabrera, hanno avuto Fangio quando si correva con un caschetto, in camicia e con un po’ di pancetta, hanno dato al mondo la trimurti Di Stefano-Maradona-Messi e li hanno visti volar via: Alfredo ai Millionarios di Bogotà prima della lunga avventura realista, Diego Armando al Barcellona, stessa meta di Lionel che i blaugrana hanno aiutato a crescere. E qui la metafora non c’entra. 

Nella combinata dei quattro più importanti sport di squadra – calcio, rugby, basket, pallavolo – nessuno può stare al loro livello. Ci riusciva la vecchia Jugoslavia, senza praticare l’arte ovale. E viene da domandarsi come ci riescano, con tutti i loro tormenti e rare estasi. E il motivo è perché il calcio e nelle canchas più desolate: l’unica maniera di divertirsi o sperare in un riscatto. Perché il rugby è radicato in club di stampo britannico, diffusi sul territorio con l’espandersi delle vie di comunicazione, in particolare delle ferrovie. E poi sono arrivati pallavolo e basket e l’Argentina è uno dei pochi paesi a comparire nel magro elenco dei paesi campioni olimpici di balon cesto. E in questo Bignami non è il caso di aggiungere tutti i titoli mondiali vinti nel polo, normali per chi nella pampa alleva molte mucche ma anche cavalli veloci, resistenti. 

L’Argentina è stracciona e snob come la sua cultura, ha avuto forti giocatori di golf, buoni veliti. Ha assistito alla diaspora dei suoi calciatori e dei suoi giocatori di rugby. Ha saputo offrire pagine che hanno commosso loro (facili alla lacrima al momento dell’inno che, come tutti sudamericani, ha un andamento rossiniano: ouverture e svolgimento) e non solo loro, e ultima pagina, per ora, sono andati a dar lezione ai depositari del rugby con la forza degli avanti grandi ladri di palloni sulla linea di fuoco dello scontro, con la chiarezza di idee dei centri, con il piede ferale di Emiliano Boffelli che riporta a quello, altrettanto fatale, di Diego Dominguez, al di là dei 1000 punti con addosso una maglia azzurra e non albiceleste. 

Non era la prima volta che i Pumas battevano gli All Blacks: era già capitato quasi due anni fa a Parramatta, un sobborgo di Sydney dove il Championship tra le grandi dell’altro emisfero si giocava in una “bolla”. Ma quella di Christchurchè è stata un’altra cosa, da raccontare sino allo sfinimento a figli e nipoti, succhiando mate o aprendo una bottiglia di Malbec uscito dalle botti di San Juan de Mendoza. A loro è riuscita un’impresa, in una lunga storia in cui l’epica prende spesso il posto della cronaca, concessa a pochi eletti: ii Lions britannici, l’Inghilterra, il Sudafrica, una Francia che aveva la fantasia al potere.  

Sabato si replica. Gli argentini, guidati da Michael Chejka, australiano di radice libanese, ex-giocatore del Livorno, sono pronti a lanciare il loro “grito sagrado”. Sanno che quei pochi pakea (bianchi) e quei tanti isolani non concederanno loro quartiere ma sanno anche quel che devono fare. Sono i Pumas, non miagolano mai. 

 

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