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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

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Italian Graffiti / L'uomo che invento' l'atletica

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Giovedì 14 Luglio 2022

 

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Oggi cade il novantanovesimo anniversario della nascita di Primo Nebiolo. Una data e un personaggio da ricordare proprio alla vigilia dei Mondiali che si apriranno domani ad Eugene. Scriveva qualche anno fa Gian Paolo Ormezzano: “I Mondiali di atletica furono inventati nel 1978, ma la prima edizione, Helsinki 1983, fu tutta sua, di lui megapresidente planetario. Adesso i Mondiali godono di tecnologie immani, ricchezze sceiccali e forze politiche per occupare mediaticamente il pianeta, però si ha nostalgia di quando li chiamavamo Nebioliadi, aggressive a costo di apparire pompose. Nostalgia di un faraone, sì, che sapeva di esserlo e agli amici spiegava che il suo era il solo modo per allargare l’atletica e difenderlo dal calcio moloch. Ci mancano le sue invenzioni, i suoi Golden Gala, i suoi proclami, magari anche i suoi errori, quando si inventava un inglese maccheronico o un francese dal grave accento piemontese. Ha avuto ventisei lauree ad honorem, ma non voleva essere chiamato dottore. Gli bastava, eccome, essere Primo”.

Gianfranco Colasante

La prima volta che incontrai Primo Nebiolo capitò in una imprecisata sera dell’inverno 1964 quando – seguendo o precedendo Ignazio Lojacono, non si capiva bene, all’epoca i due erano ferocemente nemici ma allo stesso tempo intercambiabili –, intervenne a una riunione della sezione di atletica del CUS Roma che si teneva nei sottoscala delle Casermette, a un passo dalla sala mortuaria, di faccia al Verano. Presiedeva quella riunione Mario Pescante, che di quei lontani giorni conserva, semmai accentuato, solo il naso grifagno: anche lui uomo dalle molte cariche e dalle molte vite, ma che poco o nulla ha lasciato in eredità al suo mondo. A differenza di Nebiolo.

Tornando a quell’incontro, ricordo che non mi fece grande impressione, Nebiolo. Per essere precisi, non mi piacque. Più che i suoi modi, che mi parevano un po’ affettati, mi colpì in particolare la sua montura: malgrado il freddo indossava solo una giacchetta troppo stretta, tragicamente corta, le mani affondate nelle tasche, lasciando però fuori i pollici. Vero anche che quel tempo tutti si vestivano di stretto, “per non perdersi da tutte le parti”, come scriveva Berra. Ma parlava con proprietà, guardandosi intorno. Compiaciuto e compiacente. Lo stile è l’uomo. Era quella non più che una visita di circostanza, in anni lontani, quando il cuore pesava più del portafogli. Di lì a poco, a rimettere le cose al loro posto avrebbe pensato il Sessantotto, coi suoi eccessi e le sue inconsistenze.

Primo Nebiolo è stato il quarto presidente della IAAF, succedendo all’olandese Adriaan Paulen, un occhialuto signore d’altra epoca e d’altro stampo che, nei suoi verdi anni, era stato ottocentista di buon spessore (tra l’altro, finalista ad Anversa nel 1920). Paulen era salito al vertice della sonnacchiosa federazione nel 1976, raccogliendo il testimone dall’aristocratico Lord Burghley che l’aveva retto, un po’ distrattamente ma con molta arroganza, per una trentina d’anni.

L’elezione di Nebiolo al vertice della federazione internazionale, avvenuta a Roma nel 1981, ha segnato il crinale tra due mondi e due modi diversi di intendere lo sport e l’atletica in particolare. Con Nebiolo tramontava un’epoca di rassicurante (e stanco) dilettantismo, ma se ne apriva un’altra più professionale, cadenzata da cambiamenti tanto rapidi e radicali da proiettare incognite anche sul presente.

C’è un aneddoto che non manca mai nelle biografie di Primo. Riferisce che a poche ore dall’elezione, si era recato a Londra per prendere possesso della carica e della sede. Leggenda vuole che, accompagnato dalla moglie Giovanna – che gli è stata sempre accanto, seguendolo ovunque con una devozione priva di eccessi, ma incapace di tutelarne la memoria e il patrimonio –, scese in un elegante albergo di Park Lane. Il giorno seguente, in Roll Royce presa in affitto, si recò nella sede della IAAF ospitata in un modesto appartamento a Putney, nel South West londinese.

Quella strana visita l’avrebbe raccontata, anni dopo, lo stesso Nebiolo: “Fu un viaggio lunghissimo, nell’interminabile periferia londinese. Mia moglie domandava dove andassimo, se fossimo ancora a Londra o già a Manchester. Alla fine l’autista fermò l’auto davanti ad un’anonima casa di tre-quattro piani, e io credetti avesse perso la strada. Invece, eravamo arrivati. Salimmo una breve rampa di scale, suonammo ad una porticina: era da poco passato il mezzogiorno. Venne ad aprirci un signore in tuta e scarpette da corsa. Gli dissi: sono il presidente Nebiolo. Fu molto gentile, mi invitò ad entrare e mi fece visitare la sede: due camere, e un tavolo da cucina dove erano pronti i piatti per il lunch. C’era anche una signora. Fu stappata una bottiglia di vino bianco, e servito in bicchieri di carta. Si fece un brindisi. Dopodichè, lasciai la sede della IAAF un poco depresso”.

Questi furono gli inizi da presidente. Senza perdersi d’animo, come primo atto, Nebiolo portò la IAAF in una nuova sede all’altezza, nell’elegante distretto di Knightsbridge, giusto in fronte ad Harrods: tre spaziose suites prese in affitto dall’ambasciata spagnola. Da quella sede (in seguito lasciata per chiedere asilo nel più rassicurante Principato di Monaco) poteva ora avviare i suoi progetti. Per quella che, almeno agli inizi, pareva una navigazione a vista, non senza qualche penosa calata di stile.

Facciamo ora un passo indietro e vediamo i suoi avvii nell’organizzazione sportiva nazionale, riprendendoli in parte (e liberamente) dalle note di Giorgio Reineri, uomo di scanzonata qualità e profonda umanità che, negli anni Novanta, Nebiolo strappò al giornalismo attivo per affidargli la comunicazione della IAAF.

“Nebiolo era nato a Torino il 14 luglio del 1923. I suoi genitori venivano da Scurzolengo d’Asti, e s’erano trasferiti nel capoluogo piemontese agli inizi degli anni Venti. Il padre, rimasto vedovo e riammogliatosi, aveva già due figli, un ragazzo e una ragazza, che quando Primo nacque erano adolescenti. La famiglia Nebiolo si stabilì in una zona operaia della periferia, nota come ‘Barriera di Milano’, aprendo nei pressi un’osteria con annesso spaccio di vini. La storia della società italiana è intessuta di conquiste di classe (sociale): così, i genitori spingevano affinché il terzo figlio studiasse. Il giovane Nebiolo era intelligente e dotato di gran memoria: la scuola non costituiva per lui una problema. Così la madre, e gli stessi insegnanti, lo spinsero a prendere un corso di studi riservato ai rampolli della buona borghesia: il liceo classico. E proprio frequentando il liceo Cavour, uno dei più noti e severi di Torino, Nebiolo cominciò anche la pratica dell’atletica.

Vennero, però, gli anni difficili. L’improvvisa morte del padre, con le accresciute difficoltà finanziarie. Poi la guerra, che incombeva: in quei giorni, Primo era già all’Università, facoltà di legge. Come studente, riuscì ad evitare l’immediata chiamata alle armi. Ma, quando ormai il nord Italia era sotto la Repubblica di Salò e in mano ai tedeschi, Nebiolo venne fermato durante un rastrellamento e segregato in una caserma tedesca di Milano. Era già attiva, proprio in quel tempo, la Resistenza: con coraggio, abilità e molta fortuna, Primo riuscì a sfuggire ai suoi carcerieri e, a piedi, di notte, con il rischio di esser passato per le armi, a raggiungere Scurzolengo d’Asti dove per un po’ rimase nascosto, per unirsi poi alle formazioni partigiane che operavano in quella zona del Monferrato.

Ritornò a Torino alla fine d’aprile del 1945, insieme alle unità con cui aveva combattuto e fatto, se così può dirsi, carriera. Arrivarono, rapidi, i giorni della laurea in giurisprudenza [in effetti in scienze politiche]. Riprese, anche, l’attività agonistica, gareggiando per il “Gruppo Lancia”, di cui Nebiolo fu – in qualche maniera – il primo atleta professionista, riuscendo difatti ad ottenere un aiuto in cambio dei suoi salti e delle sue volate. Il tipo era di quelli che hanno fretta: contribuì alla rinascita del “Centro Universitario Sportivo” di Torino – l’ex GUF, “Gruppo Universitario Fascista” – diventandone rapidamente il presidente. Poi, assieme ad altri, avviò la ripresa del movimento sportivo universitario internazionale, e fu tra i protagonisti della riunificazione tra Est e Ovest, cioè tra gli studenti dei paesi a regime comunista e quelli occidentali.”

Alle note di Reineri posso aggiungere che Nebiolo, da atleta, aveva scelto la velocità e il salto in lungo (figurando tra i “primi dieci” dal 1943 al ‘47), incrociando nel “Q-44” – la leva in vista dei Giochi del 1944 previsti a Roma –, uno spaesato Mike Bongiorno e quell’Angelo Cremascoli che da quei giorni magri gli resterà sempre accanto, fedele e remissivo collaboratore, per tutta la vita. Durante il non breve periodo della guerra civile, come partigiano – nome di battaglia, con una punta di goliardia, “Eros” – rimase aggregato alle formazioni cittadine dal 15 febbraio al 30 agosto 1944, entrando a far parte della 5ª Brigata della Divisione Buozzi dalla quale venne congedato l’8 giugno del 1945. Come tanti, poteva ripartire.

Ben più articolata la sua carriera sportiva, cadenzata da grandi successi e brucianti sconfitte (“mi hanno scottato – ripeteva – ma mi hanno insegnato che bisogna lottare per non venire calpestati”). Nel 2001 – curato da Giorgio Reineri e Gianni Romeo, quanto nel nome di una cosciente e condivisa piemontesità non so dire – apparve un volume rievocativo – “sempre Primo” il titolo – cui è opportuno rivolgersi per eventuali approfondimenti cronologici e biografici. Anche perché temo che – il tempo che passa è un impietoso livellatore – ai giovani che oggi si accostano all’atletica, il nome di Nebiolo dica poco o nulla, né più né meno di quanto accada con Giulio Onesti, non di rado citato a sproposito e tirato come una coperta troppo corta. Pur su piani diversi e fronti opposti, i due restano solide personalità del Novecento, due innovatori, coraggiosi quanto egualmente spregiudicati e al limite (se non oltre) del cinismo: due giganti a fronte di quanti li hanno sostituiti nel presente, ma le cui ombre si sono dissolte da tempo.

“Fra i dirigenti dello sport mondiale, è senza alcun dubbio un uomo che ha segnato la sua epoca intraprendendo iniziative intelligenti e coraggiose e azioni produttive”, ha scritto Juan Antonio Samaranch che “per meriti speciali” lo elevò al soglio olimpico in occasione dei Giochi di Barcellona. “Io ho lavorato duramente per creare le basi di un’atletica diversa – diceva poco prima di morire, Nebiolo –, uno sport che permettesse anche agli atleti di crearsi un futuro sicuro. Credo che in questi anni abbiamo fatto dei grandi passi avanti nella crescita sociale dei nostri atleti. Ricordatevi come abbiamo aiutato il Sud Africa ad uscire dall’isolamento e recuperato i rapporti con la Cina Popolare. La nostra federazione ha un’assemblea aperta e democratica. Nel 1987 abbiamo stabilito che ogni nazione aveva diritto a un voto. Se questa è mania di grandezza …”.

Suo merito precipuo resta l’aver ridisegnato lo status di “dilettante” in atletica, elevandolo ad un più appropriato ruolo inserito nel nostro tempo. L’introduzione alla luce del sole di premi in denaro per le maggiori manifestazioni, di pari passo con l’ampliamento delle rassegne mondiali (assolute, indoor, giovanili, ecc.), l’equiparazione dei programmi gara tra uomini e donne, l’apertura alle donne del management direttivo, le sue maggiori conquiste. Ha scritto Roberto Quercetani: “Nei 18 anni del suo mandato alla guida della IAAF, ha ridisegnato i confini dello sport internazionale, traghettandolo dal vecchio ed ambiguo dilettantismo ad un pieno e riconosciuto professionismo. Oggi la Federazione gode di grande autorevolezza, così come moltiplicati il suo budget e i paesi aderenti, 210 al momento della sua morte. Come ha detto il presidente Samaranch, non sarà facile trovare un altro come lui”.

Se non sempre amato, ma stimato e temuto in egual misura all’estero, Nebiolo è stato combattuto per decenni dal Ghota dello sport italiano che gli rimproverava una certa rozzezza e una smodata ambizione. Un atteggiamento dettato soprattutto dalla difesa dei propri interessi. Il punto di svolta capitò nell’anno 1987 – all’indomani dei Mondiali fortemente voluti a Roma e celebrati con sfarzo e notevole successo mediatico e di pubblico – quando in gioco era lo scranno della presidenza del CONI lasciato vacante da Franco Carraro che, all’ombra dell’onnipotente Craxi, tentava di avviare la sua carriera politica.

Su quelle elezioni gettò un'ombra decisiva la vicenda del “salto allungato” di Giovanni Evangelisti, un frutto avvelenato servito su un piatto d’argento dagli avversari a Nebiolo e all’atletica. Quel giorno – correva il 12 novembre del 1987 –, Nebiolo entrò nel salone del CONI da cardinale designato per uscirne annichilito e ridotto a diacono. Sul soglio papale inopinatamente saliva Arrigo Gattai, uno sconosciuto avvocato milanese: 26 a 13 fu il gelido e prestabilito responso delle urne. La politica, e non solo, aveva operato le sue scelte e colpito duro e basso. Ma purtroppo, colpendo l’uomo si colpiva tutto lo sport, innescando quel processo di occupazione e di degrado la cui onda lunga è giunta fino ai giorni nostri. Che errore fu quello, ...

Gli anni Novanta, l’ultimo decennio di vita di Nebiolo, furono una faticosa difesa dell’esistente. Se reggevano le mura della roccaforte di Montecarlo, molti di coloro che in Italia ne avevano costituito la corte, ricavandone grandi benefici, lo avevano abbandonato (non mancava chi s’era arruolato tra le fila di chi l’aveva combattuto). Anche l’ultima battaglia, intrapresa contro il CIO di Samaranch per la tutela dell’atletica alle Olimpiadi (si parlava di una trentina di milioni di dollari in più per le casse della IAAF per il quadriennio 2000-03), si chiuse con la sua morte. Avvenuta per arresto cardiaco il 7 novembre del 1999.

L’eredità di Nebiolo? Una chiusura che affido volentieri ancora a Reineri: “Da tempo sofferente di diabete, ma assolutamente indisponibile a curarsi, così come a considerarsi malato, avvertiva di non aver più le forze sufficienti per continuare nella quotidiana, e difficile, battaglia sul competitivo mercato dello sport. E sentiva, pure, che, scomparso lui, sarebbero arrivati giorni complicati per la IAAF. Ma, come spesso accade ai personaggi che troppo avvertono l’importanza di se stessi, Nebiolo non aveva mai voluto preparare la sua successione. Forse per l’intima convinzione di essere insostituibile.” E credo che lo fosse.


PRIMO NEBIOLO

Nasce a Scurzolengo, in provincia di Asti, il 14 Luglio 1923. Laureato a Torino in Scienze Politiche, dirigente industriale, teneva molto alla conoscenza (non sempre impeccabile) di inglese, francese, spagnolo e portoghese. Dopo una carriera nello sport universitario che nel 1961 l’aveva portato alla presidenza della FISU mantenuta fino alla morte, a fine 1969 è diventato presidente della FIDAL, carica lasciata nel 1991 e nominato presidente onorario solo nel 1997. Presidente della IAAF dal 1981, confermato per l'ultima volta nell'agosto 1999. qualche mese prima della morte; dal 1983 capo dell’ASOIF, l’associazione delle federazioni internazionali estive; membro della Giunta del CONI dal 1973 al 1978 e dal 1992, vice-presidente del CONI dal 1978 al 1989, membro del CIO dal 1992. Muore a Roma il 7 Novembre 1999.

 

 

 

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