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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
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Gianfranco Colasante
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dall’ Ottocento al Fascismo
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I sentieri di Cimbricus / Le tante verita' di Eugene

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Lunedì 30 Maggio 2022


faith

 

“Un’osservazione banale dopo il primo atto all’Hayward Field, quest’anno al centro del mondo: tra le tante specialità e distanze dell’atletica i 400 testimoniano una forte lontananza degli europei dai vertici assoluti.”

Giorgio Cimbrico 

Dicono che i record sono fatti per cadere. Quello – europeo – di Thomas Schonlebe, no. Fra non molto, il 3 settembre, saranno trentacinque anni che il sassone di Frauenstein lo centrò, conquistando all’Olimpico un titolo mondiale. Cosa rara, da caucasico. Che, scrollata di dosso l’ipocrisia corrente e imperante, significa che Schonlebe, che cresciuto in DDR gareggiò anche per la Germania unificata, è bianco, come il sottile texano Jeremy Wariner, suo successore in questo ristretto albo d’oro. 

Negli anni quel record ha subito attacchi, generazione dopo generazione, da parte dei britannici: l’ultimo atto, molto fresco, ieri a Eugene, quando Mathew Hudson Smith, pur arrivando a lunga distanza da un magnifico Michael Norman da 43”60 e chinando la testa di fronte all’eterno grenadain Kirani James, 44”02, ha chiuso in 44”35, record personale e soprattutto del Regno Unito, scavalcando il rosso Iwan Thomas, 44”36, Roger Black 44”37, Mark Richardson idem, Martin Rooney 44”45, David Grindley 44”47. Senza dimenticare chi britannico non è: il belga Jonathan Borlèe 44”43 e il francese Leslie Djhone 44”46. 

Un’osservazione molto banale: tra le tante specialità e distanze dell’atletica i 400 testimoniano una forte lontananza degli europei dai vertici assoluti. Non uno compare tra i 50 All-time (Schonlebe è 59°), una lista in cui gli americani del nord, del sud e del Caribe sono una schiacciante maggioranza: 46 contro dieci africani e due appartenenti all’area araba. Lontano Oriente e Oceania sono assenti. 

A Eugene il riconoscimento per la gara più bella è toccato ai 1500 donne e ovviamente a chi l’ha portata a casa, Faith Kipyegon che, a neanche 29 anni, deve esser riconosciuta per quello che è, la più grande “migliarola” (pardon) della storia: due volte campionessa olimpica, una volta campionessa mondiale e una volta vice, moglie del coetaneo Timothy Kitum che giovanissimo recitò da eccellente violino di spalla, terzo, nell’indimenticabile recital londinese di David Rudisha, mamma di Alyn. 

Minuscola (1,57 per 42) e gigantesca, Faith ha stroncato l’elegante etiope Tsegay andando a raccogliere in 3’52”59 il suo secondo tempo di sempre, inferiore mezzo secondo al tempo che le aveva dato il secondo oro olimpico. Il suo vertice, per ora, è stato fissato a 3’51”07, un secondo spaccato dal record mondiale di Genzebe Dibaba, da Faith infilzata in occasione del primo oro olimpico. 

Ma nel caso della piccola kenyana più che ai tempi è meglio dare un’occhiata alle sue interpretazioni, tatticamente ineccepibili, cronometricamente esaltanti, senza che Faith, un nome perfetto, faccia troppa leva sulle scanditrici di ritmo. Molto spesso ama fare da sola e, se come è capitato a Eugene, c’è chi decide di rimanere in sua compagnia, può scatenare un’aggressività che si traduce in finali spietati, con un paio di variazioni di velocità che trasmettono piacevoli brividi. 

La gara più attesa, i 100, si è rivelata la più moscia. Temperatura bassina, qualche scroscio di pioggia e una condizione generale abbastanza modesta. Trayvon Bromell era molto soddisfatto per il tempo, 9”93, e per la vittoria ma ai Trials, stessa pista, la musica sarà diversa, considerando anche la sua tenuta psicologica. Fragile. Fred Kerley corre malissimo ma è forte come uno di quei tori che allenano dalle sue parti, in Texas. Christian Coleman è monotono. Gli altri erano dei duecentisti chiamati a formare il cast. Marcell Jacobs deve solo pensare a starsene tranquillo. La chance di allargare i domini esiste. 

 

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