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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
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MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
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Italian Graffiti / Spazzati via dal maligno vento del Nord

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Venerdì 25 Marzo 2022

 

nord.macedonia


Eliminati dai Mondiali da una falange di volenterosi pedatori macedoni: si riaccende l’attenzione sui disastri del nostro calcio, sempre meno romanzo popolare, sempre più sistema di potere manageriale ed economico. Qualche correttivo?

Gianfranco Colasante

E adesso, pover’uomo? No, non parlo del vecchio Hans Fallada. Parlo della realtà, dello sgambetto della Macedonia del Nord che ci tiene ancora fuori dai Mondiali, e scuserete se come fanno tanti in queste ore non mi sogno neppure di prendere di petto il malcapitato Roberto Mancini. Ogni botte versa il vino che ha. Mi viene in mente un altro nome: Gabriele Gravina, il prodittatore dell’intero movimento, l’uomo dalle tante (annunciate) riforme: campionati, bilanci, statuti. Frase cult: “Bisogna aumentare i ricavi e tenere sotto controllo i costi”.

Un po’ pallido, il volto spiegazzato più del solito, in tv rassicura che questa sconfitta gli darà ancora più determinazione, proprio lui già così determinato, per andare avanti. Non ne dubitavamo, ad onor del vero.

Una sconfitta? Ma che dico, a leggere e ad ascoltare le scomposte reazioni, un disastro, un cataclisma, una tragedia. Un tonfo planetario. Anche se in poche ore stemperato nel disinteresse della gente che di priorità – di questi tempi grami – ne ha altre e ben più pressanti. Ma visto che il rovescio d’ogni tragedia può sempre tradursi in farsa, riavvolgo il nastro e cerco il bandolo. Da dove partire? “Si va in Qatar per vincere il titolo”, s’era spinto alla vigilia il buon Mancini, mai riavutosi dalla involontaria sbornia di Wembley.

Ma che pure qualche tremore doveva avvertirlo se s’era spinto a richiamare Balotelli. Poi, rassegnato, aveva mandato in campo il meglio che il convento gli offriva, compresi tre brasiliani, metti caso ci fosse stato da battere un rigore. Ma se i frati sono (molto) ricchi, il convento è povero assai di talento e di idee. Tanto da riuscire a costruire tutti assieme una serata di gloria per la Macedonia del Nord, costretta a cambiare nome per non fare arrabbiare i greci, non più di due milioni di anime disperse tra le montagne, prodotto interno lordo 170 volte inferiore al nostro, ma n. 67 del ranking FIFA (noi eravamo al sesto).

Senza voler ricordare che nella scaramantica Palermo – “al Barbera su sette partire ne abbiamo vinte sette” – i balcanici mancavano dei due soli giocatori d’un certo pregio, il vecchio Pandev (chiuso col calcio) ed Elmas (infortunato). Tanto che il (bel) gol del disastro – una rasoiata a filo del palo destro molto simile alla pugnalata di Pak Doo-Ik al Mondiale ’66 – l’ha messa a segno uno che su quel terreno ci aveva giocato per qualche anno, il volenteroso operaio Trajkovski, dopo aver portato avanti la palla con quattro/cinque tocchi a seguire. Coi nostri in tribuna.

E a proposito di scaramanzia, viene in mente che questa storia del Nord che ci prende a ceffoni, è antica assai e ormai può dirsi quasi un gioco di società. Risale a Belfast 1958, quella volta contro l’Irlanda del Nord che ci tenne fuori dai Mondiali di Pelé (“stanno picchiando il nostro Ferrario!”, urlava Carosio gonfiando i patri petti), prosegue proprio con la Corea del Nord del luglio 1966, e ora si ripete contro questi onesti pedatori (Brera docet), sempre del Nord ma più a loro agio nella nostra Serie C.

Conseguenze? Mentre “bella gioia” Mancini ci pensa – più dubbioso del prence di Danimarca, vado o non vado? – il Mondiale in Qatar sarà quello degli altri, in attesa che l’illuminato Infantino lo traduca nell’agognato Mondiale-non stop. Dopo che quattro anni fa a buttarci fuori fu un’altra squadra del Nord, la raccogliticcia Svezia che ora, per la decisiva contro la Polonia, potrà schierare il quarantenne Zlatan Ibrahimovic, l’ultima volta visto nel … 2006. Due Mondiali saltati, più d’una generazione di calciatori, dopo le figuracce del 2010 e del 2014, quando restammo al palo. In prospettiva non mi sento di condividere la determinazione di Gravina, uomo forte della evanescente Giunta a termine del CONI. Ma comprendo: di riforme ci sarebbe bisogno assai. Intanto, come ha rivelato la Repubblica, cominciando dal suo stipendio, che salirebbe a 240.000 euro. 

Tanto più che – e questo non l’ha proprio ricordato nessuno – all’assenza dai Mondiali corrisponde analoga latitanza dai Giochi Olimpici dove la squadra italiana manca da Pechino 2008 (tanto per cambiare, con Abete presidente e Gravina capo-gruppo). Sempre eliminata nelle qualificazioni europee nelle ultime tre edizioni, pur con tre/quattro posti a disposizione. Considerato poi che alle Olimpiadi si partecipa al livello dei 23 anni, questa lunga assenza vorrà pur dire qualcosa in tema di vivai.

Di quanto m’è capitato di leggere sulla tragedia/farsa, il più lucido m’è parso Aldo Cazzullo che sul Corriere della Sera ha fatto una rapida e fedele disanima. Non uno specialista, ma da leggere prima degli altri (strepitoso il suo romanzo “Peccati immortali”, scritto a quattro mani con un altro fuoriclasse, Fabrizio Roncone, nel quale rivela la segreta ambizione di Giovanni Malagò: farsi eleggere alla presidenza della AS Roma). Scrive Cazzullo: “E’ la Caporetto del nostro sport. Ma le Caporetto non hanno mai un solo responsabile. Tutto il calcio italiano è da ripensare. Troppa tattica, poca tecnica. Stipendi troppo alti rispetto al valore e al rendimento, poca cultura calcistica. Ora è il momento di ricostruire tutto – stadi e vivai, mentalità e scuole per i tecnici – partendo dai giovani”. Stadi? Elementare.

Si può essere o meno d‘accordo. Ma c’è altro. Molto altro, a grappolo. Il basso livello delle nostre indebitate squadre di club che – Gravina se ne duole – guardano sempre più in cagnesco la Nazionale, le stesse squadre che sbattute fuori delle Coppe europee sono quasi tutte tecnicamente fallite. Un campionato di A dove la componente straniera sfiora ormai il 67% dei tesserati, anche se poi in campo di “nativi” non ne vanno più di due o tre: ma se non giochi, come cresci? Poi le improbabili scuole-calcio che hanno sostituito i cortili e le parrocchie, frequentate per lo più da bizzosi ragazzini sovrappeso allevati a merendine. O, ma qui il discorso porterebbe lontano, il calo verticale dell’interesse verso il calcio giocato/guardato da parte degli adolescenti, poco disposti a sollevare lo sguardo da telefonini e tablet.

Infine: l’intero sistema calcio che già nella stagione 2019 aveva una esposizione debitoria di 4,27 miliardi (Ariel/Figc: Report Calcio ’19). Su che livello si sarà attestato oggi, quando Finanza e Magistratura stanno accendendo i fari su plusvalenze ed affini? A volerlo, ce ne sarebbe di spazio per riformare. Chissà poi cosa ne pensano dalle parti del Foro Italico, dove l’ultima volta hanno commissariato la FIGC per molto meno (ricordate l’accoppiata Fabbricini/Malagò in Federazione e Lega?).

 

 

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