Italian Graffiti / L'uomo giusto al posto giusto
Domenica 18 Aprile 2021
Secondo quando si è appreso, Valentina Vezzali, nuovo sottosegretario con delega allo Sport, tra i suoi primi atti ha nominato Raffaele Pagnozzi suo consulente per le istituzioni sportive. Un mondo che Pagnozzi conosce molto bene.
Gianfranco Colasante
Chissà cosa avrà pensato l'uomo che siede alla destra di Mario Draghi (o, almeno, vi sedeva in parlamento il giorno della consacrazione del nuovo Esecutivo)? Sto parlando di quel Giancarlo Giorgetti - anima buona delle Lega, secondo la vulgata di sinistra - sul cui tavolo al MISE si vanno accumulando i drammatici dossier della traballante economia nazionale. E pensare che una volta, quando era solo sottosegretario con delega allo sport, sul tavolo teneva solo due palloni da pallavolo, un ricordo dei bei giorni trascorsi come severo custode dei conti della federazione. Giorni lontani assai.
Eppure stiamo parlando solo di poco più d'un paio d'anni fa, quando - esattamente l'ultimo giorno dell'anno del Signore 2018 -, Giorgetti aveva apposto la firma alla contestata e pasticciata Riforma dello sport italiano, pilastro dello sciagurato contratto di governo tra Lega e i M5S. Oggi, in tutt'altri pensieri affancendato, deve affrontare decine di crisi aziendali, dalla ex-Ilva di Taranto a tentare di tenere a galla l'Alitalia (proprio quella compagnia di giro dalla quale aveva inopinatamente tratto il primo AD della SpA, Sport&Salute, tale Rocco Sabelli da Agnone, che avrebbe dovuto dare corpo a quella Riforma, ma che, travolto dai suoi stessi ordini-di-servizio, aveva lasciato le chiavi sul tavolo andandosene senza spiegare i motivi dell'abbandono).
Ecco, da allora, almeno all'apparenza, di sport e dintorni Giorgetti non s'è più occupato. Se escludiamo una mezza frase, poco più di una battuta, risalente a qualche settimana fa: "La Riforma dello sport? Deve ancora cominciare". Si può essere o meno d'accordo, ma resterebbe la curiosità di sapere cosa ne pensi oggi il più giovane tra i "saggi di Napolitano". Voleva cambiate tutto, Giorgetti, e ne aveva ben donde e noi eravamo con lui. O almeno così parve quando - correva il 31 gennaio del 2019 - nell'aula magna della Scuola dello Sport, con una rutilante cornice di slide, mentre il suo alter ego Matteo Salvini tesseva il panegirico della pesca alla canna, la spiegò al colto e all'inclita.
Come sia andata a finire è tutt'altra faccenda. Dopo questa lunga premessa (forse evitabile e della quale chiedo venia), possiamo dire che - il principe di Salina insegna - tutto è stato cambiato per non cambiare nulla. Il buon Giovanni Malagò, primo birillone da abbattere, dopo due mandati dai magri riscontri si appresta ad una trionfale terza rielezione che lo terrà sul trono almeno fino al 2025. I nuovi passaggi parlamentari hanno ridisegnato i confini di azione del CONI che, a seconda della eccezione, variano dalla semplice autonomia al faccio come mi pare, in ogni caso tradotti in più soldi e un maggior numero di dipendenti.
Ma c'è di più: la restaurazione si è spinta fino al pieno recupero dei due dioscuri che hanno guidato a ruoli interscambiabili il CONI nell'ultimo ventennio. Proprio il periodo che aveva suggerito la Riforma. Sto parlando di Giovanni Petrucci e Raffaele Pagnozzi. Il primo, Petrucci, che ad ogni rielezione alla federbasket promette (minaccia?) riforme che si guarda bene dal fare, viene chiamato come autorevole esperto in Giunta CONI. Il secondo, Pagnozzi, uno e bino, per oltre vent'anni segretario del CONI e nel contempo AD della società CONI Servizi che "controllava" lo stesso CONI. Un siparietto che avrebbe fatto invidia a Ionesco e al suo teatro dell'assurdo. E oggi stupisce fino ad un certo punto leggere che il nuovo sottosegretario allo sport - Valentina Vezzali (il settimo o l'ottavo responsabile governativo per la sola gestione Malagò) - lo abbia voluto accanto a se come consulente verso le istituzioni sportive.
Uomini del passato che la Riforma avrebbe dovuto pensionare, casomai distribuendo qualche medaglia al merito? Niente del genere, si metta pure il cuore in pace Giorgetti che - buon per lui - spazia ora verso più vasti orizzonti (e forse un giorno prenderà il posto di Draghi). Diamogli pure atto di averci provato. Per Petrucci non ho molto da dire: lo fa già benissimo da solo e a modo suo lo spiega in frequenti e ripetitive interviste calate dall'alto. Quanto a Pagnozzi - assunto al CONI il 1° settembre del 1973 - lo conosco più o meno da quei giorni, quando arrivava in auto al Foro Italico con la "banda dei quattro di Frascati" capeggiata da Tonino De Juliis che al CONI c'era arrivato qualche anno prima transitando dai Giochi della Gioventù.
Relegato in un ufficio dell'OP (non l'agenzia di Mino Pecorelli di andreottiana memoria, ma più modestamente l'Organizzazione Periferica, ora dimenticata), Pagnozzi - per i conoscenti (amici mi pare una parola grossa) solo "Lello" - fece una rapida e inattesa carriera. Della svolta fui testimone involontario trovandomi con lui quel giorno sul vasto ballatoio al piano nobile del palazzo H. Capitò quando Franco Carraro - ch'era diventato presidente nella mattinata del 4 agosto 1978 all'Hilton, poche ore prima che Sara Simeoni portasse a 2.01 il record mondiale dell'alto, e ci fu chi volle abbinare i due eventi - lasciò il CONI perchè chiamato da Craxi a fare il ministro del turismo nel governo Goria, il primo che portava i famelici socialisti nella stanza dei bottoni. Avviandosi per lo scalone immortalato da Alberto Sordi in "Polvere di stelle", Carraro si voltò di scatto: "E lei, dottor Pagnozzi, che fa?". Dopo qualche istante di esitazione, lo sciagurato rispose: "Eccomi!". L'inizio di una carriera folgorante al seguito del multiforme Franco. Correva il luglio del 1987.
Segretario particolare di Carraro al ministero di via della Ferratella e di seguito al comune di Roma quando Carraro lo conquistò per conto del PSI, e tanto altro ancora, Pagnozzi costruiva la sua epopea. Inevitabilmente, con la sua crescita, ci perdemmo di vista: me lo ritrovai davanti solo nella mattinata del 30 giugno 1993 quando, inatteso, entrò nel mio modesto ufficio. Quel giorno c'erano le elezioni del CONI: Pescante, sempre con la benedizione di Carraro, affrontava Gattai. Era pallido ed agitato, tanto evidente quello stato che mi venne di chiedergli se si sentiva bene. Non avrei mai immaginato il motivo di quella visita. Anche perchè radio fante aveva informato per tempo che nella serata precedente, nell'attico di Pescante, novella Pontida, i presidenti avevano giurato e benedetto Petrucci come nuovo segretario del CONI della nuova era.
E invece, al momento della nomina del segretario, Petrucci si alzò e fece il gran rifiuto: "Gli amici del basket mi hanno chiesto di non abbandonarli e io non li abbandonerò". Ed ecco, siamo sempre a teatro, Carraro fare il nome di Pagnozzi sollevando un'onda di perplessità. Pagnozzi chi? Nessuno se lo ricordava. Riunione sospesa dopo l'elezione del nuovo presidente e l'uscità poco elegante di Gattai che a sue spese se la prese con un pesante cestino in legno (all'epoca l'arredo del salone del CONI, ora simile ad una balera di periferia con mobili in plastica e luci al neon, aveva ancora l'imponente mobilio littorio in quercia dell'accademia fascista). Se ne riparlò nel pomeriggio inoltrato, dopo che per ore chi poteva s'era ingegnato a convincere uno per uno i più riottosi tra i presidenti federali. Qui le testimoninze orali e scritte almeno su un punto concordano. Alla fine il nuovo consulente del governo Draghi per lo sport ce la fece: raccolse esattamente i 21 voti necessari su 37, con 10 voti contrari e 6 schede dichiarate nulle. Non uno di più. Cominciava la sua ascesa sul palcoscenico della Città Eterna che da sempre vive di imperscrutabili relazioni e di artificiose apparenze.
Per saperne di più, sono andato a sfogliare il libro di memorie di Franco Carraro ("Mai dopo le ventitrè") pubblicato a quattro mani nel 2017 con la valorosa ed incolpevole Emanuela Audisio. Tra quelle pagine Pagnozzi diventa un fantasma: la sola volta che Carraro lo nomina (come "capo della mia segreteria") è per ricordare, siamo a pag. 138, il suo ruolo nello sgombero all'alba dell'ex-pastificio Pantanella, occupato da oltre 2000 clandestini. Scrive testuale Carraro: "Io sembravo Adolf Hitler e loro i deportati. Non lo so dove sono andati, certo non si sono suicidati. Duemila persone se le metti tutte assieme sono un problema, ma se le sparpagli nel contesto di Roma è diverso". Non male per un sindaco socialista (oggi si direbbe progressista) e per il suo braccio operativo. Chissà perchè malignamente, mentre leggevo, m'era tornata in mente la faccenda della polvere sotto il tappeto delle vecchie case borghesi.
Per quanto mi riguarda, lasciai il CONI - accompagnato con malagrazia al portone - nell'agosto 2004 (c'ero entrato ufficialmente nel 1967, ma lo bazzicavo da anni prima), mentre ad Atene si tenevano i Giochi che Carraro, Petrucci, Pescante, Pagnozzi e Co. avevano provato - assieme all'immaginifico "Ualter" Veltroni - a portare a Roma tentando, tra l'altro, di convincere la commissione del CIO che da Fiumicino il centro della Capitale si raggiungeva in circa mezz'ora. Una delle tante candidature farlocche malgestite sulla pelle dei romani. Da allora Pagnozzi non l'ho più visto, salvo averlo incontrato casualmente nel 2015 nella lontanissima Baku, avete letto bene, dove io ero in vacanza e lui impegnato ad armare quel curioso baraccone chiamato "European Games" a spese degli oligarchi azeri. Mi colpì che a quasi settant'anni, artificiosamente abbronzato, indossasse ancora costose e appariscenti Snyder's e portasse la camicia fuori dai pantaloni. Forse ormai schiavo del personaggio che s'era cucito addosso.
Certo, i vent'anni della gestione Pagnozzi - che tanto hanno influito sulla storia dello sport italiano, a mio modo di vedere in negativo - sono ancora tutti da scrivere. Una interessante chiave di lettura la fornisce lo stesso Carraro che, a proposito della crisi finanziaria che aprì il baratro, si dà questa spiegazione (non proprio assolutoria per i due Dioscuri): "Questo perchè negli anni Novanta il CONI si è impigrito, si è messo in pantofole, incapace di trovare una risposta alla crisi del Totocalcio. Il CONI non ha capito che il calcio si stava trasformando e che forse valeva la pena di buttarsi nella gestione delle scommesse".
Buttarsi sulle scommesse? Non so, tanto più che a proposito di scommesse si potrebbe ricordare quella faccenda del calcio-scommesse esplosa nel 2006, nell'imminenza dei Mondiali di Germania, proprio Carraro a capo del calcio. Interprete dell'indignazione popolare e sull'onda dello scandalo che coinvolgeva l'intero establishment sportivo nazionale, L'Espresso pubblicò un grosso fascicolo - 426 pagine in A4: "Il libro nero del calcio" - riportando per esteso tutto, compresi i testi delle registrazioni. Tutti appassionatamente coinvolti, anche se alla fine non pagò nessuno (per i suoi 80.000 euro di multa Carraro ricorse addirittura al TAR del Lazio). Altra fedele ricostruzione di quei giorni la fecero Bruno Bartolozzi e Marco Mensurati in "Calciopoli, collasso e restaurazione di un sistema corrotto". La sua volle scriverla perfino il giudice Raffaele Cantone, tanto spesso citato a garanzia delle patrie istituzioni, firmando "Football Clan". Ma i libri, almeno nello sport, non hanno mai cambiato nulla.
In quella circostanza tuttavia emerse la registrazione di una telefonata tra Pagnozzi e Luciano Moggi non proprio dai toni oxfordiani. Si parlava di 10.000 euro o forse d'altro. Tali e tante le parolacce che la infiocchettavano, che nel maggio 2006 Michele Santoro ne fece oggetto di una puntata preparatoria ad Anno Zero su RAI-2, nella quale due attori replicavano a suoni di continui bip, quella conversazione. Tanto imbarazzante ad ascoltarla nei contenuti e nell'eloquio che lo stesso Pagnozzi - futuro Cavaliere di Gran Croce - si sentì in dovere di emettere un comunicato nel quale si scusava e informava di aver dato mandato ad un notissimo studio legale di tutelare la sua "correttezza e onorabilità". Parolacce private in rete pubblica. Come sia andata a finire, chi scrive lo ignora.
Ma tutto questo appartiene ad un lontano passato, diciamo alle radici di una certa dirigenza sportiva. E penso che Valentina Vezzali per questo incarico abbia valutato ben altre priorità. Misteri della politica da un lato, delle relazioni dall'altro. Anche in un paese che ha fatto della cancellazione delle memorie il suo credo più praticato, qualche domanda però sarebbe lecito porsela. Anche se non giungeranno mai risposte.
Il nostro nuovo consulente uscì dal corridoio nobile del Foro Italico a fine mattina del 19 febbraio 2013 quando Giovanni Malagò, solo in parte a sorpresa, ebbe la meglio riportando 40 preferenze contro le 35 del rivale che tentava il salto, alla vigila dato per certo, dalla segreteria alla presidenza (in fondo si trattava solo di trasferirsi nella stanza attigua). Niente da fare. I testimoni parlano di un Pagnozzi che esce di scena pallidissimo e senza replicare al vincitore che lo bolla con un sardonico "un abbraccio a Pagnozzi".
Che successe in seguito al nostro? Non gli andò proprio bene. A stare ai fatti, quella sconfitta non rimase isolata. Nel dicembre del 2015 fu seguita da un'altra battuta d'arresto quando provò la scalata alla Lega Pro contro Gabriele Gravina sulla rampa di lancio verso la presidenza della FIGC. Si impose Gravina con 31 voti contro 13. Nell'aprile di due anni dopo, aprile 2017, nuova sconfitta alle elezioni per il Comune di Frascati con una lista PD: neppure i suoi concittadini lo premiarono preferendogli l'esponente di una lista civica. Ancora un anno, ed eccolo a Napoli, nominato delegato del CONI di Malagò alle Universiadi. Cerimonia di insediamento, foto di rito e poi, a quanto si sa, se ne perdono le tracce. Eppure sarebbe stato un bel ritorno, visto che lui è di quelle parti.
Ma come già detto, tutto questo appartiene ad un passato più o meno recente. Quel che conta è che non è mai troppo tardi per ricominciare.
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