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I sentieri di Cimbricus / Doping: in atletica e' caccia grossa

Lunedì 25 Gennaio 2021


coleman-doping


Costituita da tre anni in seno alla WA, l’Athletics Integrity Unit ha messo in carniere quasi 200 prede tra medagliati ai Giochi Olimpici e ai Campionati Mondiali. E la caccia continua.

Giorgio Cimbrico

La storia dell’AIU assomiglia a quella degli Intoccabili che diedero la caccia ad Al Capone: qualche azione spettacolare ma più che altro un continuo e approfondito lavoro di analisi, di ricerca, di indagine. Il risultato è che, a poco più di tre anni dalla fondazione, l’Athletics Integrity Unit ha messo in stato d’accusa e ha portato a condanne pesanti o definitive per doping 30 medagliati alle Olimpiadi e ai Mondiali e altri 130 atleti di alto livello sia in pista che nelle gare su strada.

“Essere di alto profilo non garantisce protezione: l’’AIU ha ridato fiducia”, è il commento di Sebastian Coe, presidente di una federazione mondiale che ha conosciuto tempi molto oscuri: i 22 atleti russi che versavano denaro a Lamine Diack, predecessore di Coe, per ottenere la cancellazione delle loro colpe chimiche e farmacologiche sono tra i protagonisti – e le vittime – di un sistema vergognoso, costato a Diack una condanna penale da parte di un tribunale francese. Coe, vicepresidente durante la gestione Diack, si è sempre detto all’oscuro di queste macchinazioni.

Nel 2017 la necessità di avere un organismo indipendente porta alla nascita dell’AIU che viene finanziata da World Athletics (ex IAAF) con il 12% del suo budget, circa 7 milioni di euro l’anno. L’Unità ha nove addetti alle indagini e alla ricerca delle testimonianze, otto che lavorano ai test, altri sette che si occupano del resto della struttura organizzativa e amministrativa.

Usano severamente lo strumento dei controlli legati alla reperibilità degli atleti: tre test mancati nell’arco di dodici mesi equivalgono a una positività, anche se l’atleta in questione non è mai risultato positivo a un esame antidoping fuori o dentro le competizioni. E di fronte alle proteste di innocenza che immancabilmente si alzano, sono in grado di smascherare, di provare che certe giustificazioni sono frutto di invenzioni, costruite su menzogne. Come nel caso di Jemina Sumgong, oro nella maratona a Rio e bandita per otto anni: positiva all’EPO, fornì una versione dei fatti secondo cui l’iniezione le sarebbe stata fatta da uno sconosciuto mentre era in corso uno sciopero dei medici all’ospedale di Nairobi

L’AIU ama la caccia grossa: Christian Coleman, l’uomo più veloce del mondo, ha avuto due anni di squalifica per non essersi reso disponibile a tre controlli e non è stato preso in considerazione che, nel caso della terza assenza, il velocista fosse impegnato – versione sua – nello shopping prenatalizio. Tokyo o non Tokyo, Coleman sino al 2022 starà a guardare.

Altri scalpi importanti: la kenyana, “venduta” al Bahrain, Ruth Jebet, campionessa olimpica dei 3000 siepi a Rio, quatto anni per EPO; Wilson Kipsang, ex-primatista mondiale di maratona, quattro anni per test saltati e per aver tentato di fornire prove false; Danil Lysenko, saltatore russo da 2.40 e vicecampione mondiale nel 2017, assente ai controlli fuori competizione con la copertura della sua federazione.

Fresche chiusure di indagini hanno portato alla “incriminazione” del lunghista sudafricano Luvo Manyonga, argento a Rio e campione mondiale nel 2017 (tre controlli saltati e proposta di quattro anni di squalifica) e dell’ostacolista americana Brianna McNeal, olimpionica in carica: per lei, possibilità di otto anni di bando per una delle colpe più gravi, manomissione dei dati. In ballo rimane il caso della bahreniana Salwa Eid Naser, campionessa mondiale dei 400, assente a tre, forse quattro controlli (“Cose che capitano” ha commentato lei), scagionata dal CAS ma non “mollata” dai mastini dell’AIU, pronti all’appello.

 

 

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