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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
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I sentieri di Cimbricus / L'ingannevole mito del record

Martedì 25 Settembre 2018

 

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"I record che amiamo sono per la mente e per il cuore: a ben vedere sembra il titolo di una cantata di Bach".

 

di Giorgio Cimbrico

Mi è già capitato di scrivere che non presto alcuna attenzione agli scienziati che decidono di compilare tabelle sui record del mondo nel 2040, 2060, 2080 giungendo poi alle conclusioni sui limiti umani: regolarmente trovano spazio sui giornali, stampati o in rete, perché “fanno” titolo. Credo che i record siano capolavori, spari nel buio, risultati di pratiche illecite, frutti di un lavoro tecnico formidabile: può capitare, come in questo caso, di condensare in una riga le storie e le ragioni che hanno generato risultati che hanno stordito, che portiamo dentro. Con un certo orgoglio, in caso di presenza fisica in quel luogo e in giorno di tuono.

Con tutto quel che si è detto, scritto e provato sulla Ddr, sono felice di aver assistito, il 6 ottobre 1985, al Bruce Stadium di Canberra, al 47”60 di Marita Koch. Io e un mio caro amico uscito di scena da molti anni, Dino Pistamiglio, scattammo in piedi quando Marita passò sull’ultima curva e il tabelloncino indicava tra i 33 e i 34. Wolfgang Meier, allenatore e marito, disse che i primi 100 erano stati divorati in 10”9. Non so se è vero, magari anche lui quel giorno era un po’ nervoso.

Di quel che capitò più o meno dieci anni dopo – 7 agosto 1995, Ullevi di Göteborg – quel che mi rimane più infisso in testa sono le piccole tracce lasciate nella buca da Jonathan Edwards. I lunghisti e i triplisti, di solito, perdono l’assetto, arrivano sghembi, alzano ondate di sabbia. Lui no: tre salti radenti, un segno lasciato dalle parti dei 18 metri, un’occhiata: 18.16. Un quarto d’ora dopo, stesso gesto e solo qualche variazione dei balzi (6.12-5.19-6.85 contro 6.05-5.22-7.02) per quell’atterraggio sublime a 18.29, per quel sorriso che aveva qualcosa di paradisiaco.

Sono passati trentatre e ventitre anni: ci troviamo di fronte a limiti umani? “Non credo”, aggrotterebbe la fronte il commissario Maigret prima di andare a indagare su altre linee di confine che paiono intoccabili, entrambe tracciate all’Olimpico di Roma: il 3’26”00 di Hicham el Guerrouj ha appena tagliato il traguardo dei vent’anni e il 3’43”13 è lanciato sulla stessa dirittura temporale. Secondo gli scienziati vent’anni, a palmi tre generazioni di atleti, avrebbero dovuto portare a variazioni significative. E invece, nada. Perché? Perché el Guerrouj aveva il tocco magico, era il giovane dal piede leggero di cui parla Karen Blixen in un suo commovente elogio.  

Dieci anni fa iniziavano le guerre stellari di Usain Bolt, sconfitto soltanto dallo starter di Daegu. I giorni, nel caso del Lampo, sono i 16 e il 20 agosto 2009, Olympiastadion di Berlino. Qui un’idea, un sospetto di limiti umani – definitivi? – si fa strada. E conferma che, con buona pace di adepti degli algoritmi, molto spesso il futuro può essere alle spalle, affidato a chi ha saputo lasciarci una magnifica eredità. Oggi fa più moderno dire legacy.

I record di Edwards hanno la stessa perfezione della veduta di Delft di Vermeer, secondo Proust il più bel quadro che sia mai stato dipinto: quelli di el Guerrouj sono due delle ultime sonate di Beethoven; quelli di Bolt sono il free jazz di John Coltrane.

Il 16 settembre di quest’anno, ancora fresco di conio, ancora in grado di suggerire palpiti, fa già parte di questa galleria. Le qualità genetiche di un kenyano, il progetto tecnico a lunga gittata che ha investito Kevin Mayer hanno saputo offrire un’altra sequenza di quei numeri che vanno gustati, accarezzati, che diventano note, colpi di pennello, istantanee degne di Cartier Bresson.

I limiti lasciamoli a chi è pratico di numeri. I record che amiamo sono per la mente e per il cuore: sembra il titolo di una cantata di Bach.

 

 

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