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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

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Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
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I sentieri di Cimbricus / Questi giorni di tuono e di gioia

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Lunedì 25 Giugno 2018

lyles 2


Scoppi di luce ai due lati dall'Atlantico. A Pippo ha risposto Noah, 9"89 e 9"88 ai campionati della NCAA.


di Giorgio Cimbrico

Tortu e Lyles sono gli ultimi arrivati: per entrare nel club dei più veloci è necessario avere un cognome entro le cinque lettere. E infatti il principe Aleksandr Obolensky, il fulmine che si abbattè sulla foresta degli All Blacks (due mete e neozelandesi lasciati a zero), per gli inglesi degli anni Trenta era Obo e basta. Owens, Hary, Hayes, Hines, Smith, Lewis, Surin, Cason, Dix, Bolt, Blake, Gay. Nomi da titoli, si diceva una volta: come Coppi, Pelé, Riva. Aggiungendo gli ultimi due dioscuri entrati in scena, classe ’98 e ’97, fanno 59 lettere per i capitoli che, da un salto temporale all’altro, permettono un viaggio lungo oltre ottant’anni. Sarebbe necessario aggiungere anche Su e Xie, ma è noto che i cinesi abbiano patronimici tradizionalmente sincopati. Va così da 4000 anni.  

Consigliato anche un nome di battesimo – o un soprannome – il più possibile contratto: Jesse, Armin, Bob, Jim, Carl, Bruny, Andre, Usain, Yohan, Tyson, Pippo, Noah, Eccedono solo Calvin e Walter, ma per non escluderli dalla regola aurea delle dieci lettere complessive per chi ha inseguito, raggiunto, scavalcato o distrutto la barriera dei 10”, li chiameremo Cal e Walt. Nelle dieci battute rientrano anche Ryan Bailey (9”88 sul magico rettilineo di Rieti) e il cavaliere più oscuro che ci sia: Ben Johnson.     

Seconda osservazione, meno bizzarra, più fondata: la brevità dei 100 ha il fascino non sottile e coinvolgente che nessun’altra specialità dell’atletica possiede, per il grande pubblico e non solo. Provate a pensare se un italiano, l’altro giorno, avesse sparato il martello a 82 metri: dopo preghiere e suppliche, sarebbe stata accordata una ventina di righe, nulla più. Riunendo tutto quel che è stato scritto sul 9”99 madrileno, si riempie quel che oggi è chiamato instant book.

I 100 sono un’altra cosa: sono un respiro profondo, un silenzio perfetto, un tuffo dentro il corridoio della corsia, la sensazione provata e trasmessa dell’inseguimento dell’assoluto. Lo sanno in tanti che è nei 200 che l’uomo raggiunge i suoi picchi da ali ai piedi facendosi fondare fuori dalla curva (la vulgata narra che a Berlino 2009 Bolt abbia toccato in un piccolo tratto i 44 orari), ma i 100 sono un esercizio mentale per chi li corre, per chi li guarda, e quando l’attesa è finita ed è il momento di andare sui blocchi lo stadio, piccolo o grande che sia, diventa un organismo che abbassa le pulsazioni per farle salire all’improvviso. Bang.

E così, dopo che quel è avvenuto in questi giorni di tuono e di gioia, non resta che proiettarsi al momento più alto che, con tutto il rispetto, non sarà al Mondiale di Doha, ma a Tokyo 2020, al giorno in cui per la prima volta un velocista italiano potrebbe correre (correrà) una finale olimpica dei 100, rivincita di quando, a Bydgoszcz, Pippo 18enne e Noah 19enne si affrontarono per la corona mondiale dei giovani. La spuntò di sette cents Noah che oggi ha allungato il vantaggio a undici. Per il momento, interrompere la narrazione e riporre la boccia di cristallo.

 

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