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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

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I sentieri di Cimbricus / La redenzione di Luvo Manyonga

Mercoledì 11 Aprile 2018

Luvo Manyonga leaps to a Commonwealth Games record (Getty Images)

Dopo le ondate nel nuoto, ai Giochi del Commonwealth irrompe l'atletica che propone elementi nuovi e sorprendenti.

di Giorgio Cimbrico

“Sono sempre più convinto di poter arrivare al record del mondo, di diventare il primo uomo ad atterrare a nove metri. C’è qualcosa di speciale nelle mie gambe e credo anche sia venuto il momento in cui le luci debbano lasciare la pista e andare ad illuminare quel che capita sulle pedane”: dopo i fatti, le parole, quelle di Luvo Manyonga, 8.65 (e cioé ai margini dei dieci di sempre), campione mondiale, vicecampione olimpico, vicecampione indoor, con Caster Semenya simbolo dell’atletica sudafricana, stella dei Giochi del Commonwealth in corso a Gold Coast, Queensland. E che si è portato a casa saltando 8.41.

Manyonga ha una storia che merita di esser raccontata, lasciando la parola, prima di tutto, a chi gli ha dato una mano. “Se sei pronto a percorrere una strada, sarò al tuo fianco, gli ho detto, ma intanto sapevo che ci sarebbe voluta la saggezza di Salomone e la pazienza di Giobbe”: John McGrath, irlandese grande e grosso, ex-strongest man che piegava sbarre di acciaio e spezzava catene in giro per il mondo, ha preso sotto le sue robuste ali un tossicodipendente di Mbekweni, la “township” di Paarl, Provincia del Capo. La strana coppia, roba da film di Danny Boyle, ha funzionato: Luvo oggi è quel che è, il numero 1: in condizioni giuste, un viaggetto oltre 8.70. O più.

“Sono nato nel ’91, l’anno del record del modo di Mike Powell: lo considero un segno del destino. Toccherà a me batterlo. Quel record mi sta chiamando e io sono affamato”: chi esce dal buio della notte, chi percorre i sentieri della redenzione, sente di avere dentro di sé la Forza. È il caso di Manyonga, 27 anni, xhosa come Nelson Mandela, cresciuto in una delle tante “township” dove miseria, violenza e droga miscelano un cocktail micidiale. Lui, come molti amici suoi, era un consumatore di cristalli di amfetamina: in Sudafrica lo chiamano tik. Nel 2012, 18 mesi di squalifica: “L’unica cosa che riuscii a dire fu che lo facevo per vizio, non per migliorare le mie prestazioni”.

Né facile né semplice anche la vita di John McGrath che, nell’ordine, soffre di bullismo a scuola (“mi spegnevano le cicche addosso”), si ribella, diventa un esperto di arti marziali (tra i suoi guru, Do Ju Nim, maestro di Bruce Lee), diventa canottiere (“vogavo con tipi destinati a diventare avvocati, ingegneri”), finisce per occuparsi di sbarre e catene al Luna Park di Coney Island e, dopo lungo girovagare, accetta un posto da spazzino a Waterford: uno spazzino alto 2.00 per 120 chili.

In Sudafrica John arriva per caso: una vacanza con una ragazza. Non torna indietro, mette su una palestra a Paarl ed è lì che sente parlare di Luvo che nel frattempo aveva vinto i Mondiali juniores 2010, era finito quinto ai Mondiali di Daegu e aveva messo assieme anche una discreta somma che avrebbe potuto far comodo visto che a casa si andava avanti solo con i guadagni di mamma Joyce, domestica. Invece, tutto buttato, alla svelta. Capita a chi finisce in quel giro. “Ho sentito parlare di Luvo, l’ho conosciuto, gli ho parlato chiaro e ho subito capito che non sarebbe stato facile”, racconta John che chiede un incontro con i dirigenti della South African Sport Confederation. “Darei volentieri una mano perché Manyonga si rimetta in piedi”, dico. E quelli: “Non ci pensi nemmeno, e in ogni caso è squalificato”. “Credo che da quelle parti non abbiano mai sentito un fuck you più forte”. Gli dà una mano il pastore (di anime) Eugene Maqwelen, che conosce bene la “township”, i meccanismi che la governano, la gente.   

John sa allenare la forza, capisce di preparazione fisica, mastica qualcosa di dietetica ma di tecnica è a digiuno. “Non capivo niente neanche di scarpe: ne ho regalato un paio a Luvo ma non erano da salto in lungo. E lui ha saltato 8.10. Comunque, così non potevamo andare avanti”. E così entra in scena Mario Smith, che in realtà rientra, perché aveva allenato il giovanotto agli esordi. Smith muore tre anni fa in un incidente stradale proprio mentre va ad allenare Manyonga: lo shock e il dolore sono devastanti. Ma McGrath non è un tipo che si arrende: riesce a far accettare il suo protetto all’High Performance Center di Pretoria che in realtà fa un grosso affare. E potrebbe farne uno anche più grosso: “Al fianco di John e di mia madre, ho ritrovato la speranza, sto saltando al 99% e mi sento pronto per andare lontano”. La redenzione va avanti.

Lo strano caso di Caster

Caster Semenya takes Commonwealth 1500m gold (Getty Images)

Ai Giochi del Commonwealth di Gold Coast, Queensland, succedono cose singolari. Ad esempio che dopo averle prese nelle siepi da due americane ai Mondiali di Londra, le kenyane Chespol e Kirui le buschino anche da una giamaicana. Un evento sorprendente come l’uomo che morde il cane? Non proprio. Aisha Praught, isolana per parte di padre, americana sul versante materno, si allena nei posti giusti (in Oregon prima, a Boulder ora) ed è seguita dal britannico Mark Rowland, bronzo olimpico e vecchio avversario di Francesco Panetta.

La vittoria di Aisha è stata una manna perché l’addio di Bolt sembra aver seccato la linfa che scorreva copiosa a Kingston e nelle altre contee dell’isola al centro dei Caribe: a parte 110hs e triplo donne, i giamaicani passano da una sconfitta all’altra nelle distanze che li hanno spediti in orbita. Un buon raccolto di podi nei 100 e nei 400 (tra uomini e donne, sei medaglie) ma neanche una d’oro. E nessun nuovo, strepitoso talento messo in vetrina. Yohan Blake non è più – e da tempo – il viceLampo del 2012. Lo sprint dei popoli dell’ex-Impero oggi è sudafricano.  

Va anche peggio al Kenya che si è arreso nelle distanze lunghe agli e alle ugandesi, che ha bucato il giardino delle siepi e non presentando al via dei 1500 la campionessa olimpica e mondiale Faith Kipyegon, ha alzato bandiera bianca davanti allo strapotere di Caster Semenya che si è tuffata nella dimensione della doppiettista. Poco più di 4’ (record personale e del Sudafrica) sotto la pioggia, per regolare la concorrenza e prepararsi all’assalto degli 800.

Subito dopo, l’ottocentista australiana Brittany McGowan ha versato benzina sul fuoco che arde attorno alla sudafricana sin dalla sua prima apparizione, nove anni fa a Berlino. “Dura paragonare i suoi tempi con quelli delle altre”. Quella che qualcuno ha definito delicata vertenza va avanti: la IAAF ha chiesto da tempo al Cas una revisione sui livelli di testosterone toccati da chi, come Semenya, è affetta da iperandroginismo. La decisione finale è annunciata per novembre. Se la federazione internazionale sarà accontentata, tornerà obbligatorio l’uso di medicinali che limitino la produzione di ormoni maschili. Nel caso, Semenya finirebbe su un bivio: adattarsi o chiudere?   

Il dominio del Botswana, già Bechuanaland, nel quarto di miglio è schiacciante: interprete della più controversa storia dei Mondiali di Londra (escluso dai 400 per presunta infettività, riammesso per i 200, qualificato alla finale dopo una solitaria “cronometro”), Isaac Makwala ha sparato un gran tempo fuori stagione, 44”35, lasciando a sette decimi il ventunenne connazionale Baboloki Thebe, minore di lui di dodici anni.

Amantle Montsho, prossima ai 35 anni, è tornata a metter le mani sul titolo del Commonwealth a otto anni dalla vittoria di Delhi. I Games erano stati fatali alla campionessa del mondo 2011: a Glasgow 2014 era stata trovata positiva a uno stimolante e squalificata due anni. Il Botswana ha rischiato di raccogliere due medaglie: quarta, a un paio di decimi dal podio, Christina Botlogetswe, 51”17. Nella specialità che debutterà a Tokyo 2020, la 4x400 "mista", il paese dell’Africa Australe può pensare seriamente a una medaglia.

 

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