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I sentieri di Cimbricus / Quei primi temerari sull'Atlantico

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Mercoledì 4 Aprile 2018

alcock 2

Una pagina dimentica: otto anni prima di Lindberg, furono gli inglesi John Alcock e Arthur Brown a sorvolare l'Atlantico.

di Giorgio Cimbrico

“Qualcuno è ferito?”. “No”. “Ma dove venite?”. “America”. Taylor stava andando alla torbiera quando aveva sentito il rumore e aveva visto l’ombra. Aveva alzato lo sguardo, aveva visto l’aereo sopra la sua testa, a occhio a sessanta piedi d’altezza, e a quel punto non c’era più stato il tempo di pensare a un’apparizione demoniaca, magica, perché l’aereo stava toccando terra. E parlar di terra per una torbiera è un’impresa, un azzardo: peli d’erba che mimetizzano quel color caffè scuro del carbone dei poveri, l’acqua, il fango. Stridore di metallo che si piega, schiocchi dei cavi che saltano, tutto dentro un grande splash. Nel muso ammaccato, due uomini e uno gli aveva detto che venivano dall’America. Bah. Ubriachi non gli sembravano.

E così, dopo averli aiutati a scendere, Taylor aveva tagliato per una delle colline cosparse di pietre bianche di Connemara e, con il fiato grosso, era arrivato a Clifden e aveva avvertito che era successo qualcosa di grosso ed erano scesi in tanti: il sindaco, i due poliziotti e quelli che pencolavano attorno a pub aspettando che la marea si alzasse per uscire in barca. E quando era entrato dal sindaco, gli occhi gli erano caduti sul calendario: 15 giugno 1919, giorno di san Germana; sette mesi prima era finita la guerra.

Quando erano tornati alla torbiera, vicino alla scogliera di Derrygimlagh, i due sembravano più vitali e dall’accento lui aveva capito che non erano americani e avrebbe scommesso una corona che uno era scozzese e l’altro del Lancashire o insomma di quelle parti. Taylor era bravo nel riconoscer le cadenze: Arthur Whitten Brown era di Glasgow e John William Alcock di Manchester, di Old Trafford, a esser precisi, dove sarebbe sorto uno stadio molto famoso: i primi a lasciarsi alle spalle l’Atlantico in un balzo. Charles Lindbergh ci sarebbe riuscito solo otto anni dopo e arrivando nel tripudio notturno di Le Bourget avrebbe detto: “Tutto questo lo devo a Alcock e Brown”.

I volti di John e Arthur apparvero sulle prime pagine dei giornali. Il titolo del New York Times diceva: “Alcock e Brown volano sopra l’Atlantico, 1980 miglia in 16 ore e 12 minuti su e giù in una nebbia densa e gelata”. Tre righe per una buona sintesi: in realtà, da St John’s, Terranova, a Clifden, contea di Galway, Irlanda, le miglia sono 1890 e il tempo fu 16 ore e 27’. Cambia poco. Media, 115 miglia orarie, secondo il nostro sistema di misurazione, 190 chilometri ogni sessanta minuti. La velocità del suono non era contemplata.

Alcock non aveva ancora 27 anni, era capitano della RAF, e, dopo un’azione su Suvla Bay (durante la catastrofica campagna di Gallipoli), era finito prigioniero dei turchi; Brown ne aveva 33, era tenente, e durante la guerra era stato catturato dai tedeschi. Non erano cavalieri del cielo, volavano sui primi lenti bombardieri, i grandi biplani della Vickers. Lenti, ma con buona autonomia. “Con qualche modifica si può fare”: Alcock ebbe l’idea, Brown ne convenne. La Vickers pensò che la faccenda era conveniente: l’obiettivo era strappare la Great Atlantic Race, sostenuta dal Daily Mail, 10.000 sterline per chi avesse scavalcato l’Atlantico in 72 ore.

Volare da Terranova all’Irlanda rappresenta il punto più stretto – o meno largo – e mentre i meccanici della Vickers montavano il Vimy (così battezzato da una vittoria alleata nel nord della Francia), mosso da due motori Rolls Royce Eagle da 360 cavalli, l’isola dei pescatori di merluzzi era diventato il ritrovo degli avventurosi, Il 18 maggio decolla il biplano Sopwith con l’australiano Harry Hawker ai comandi (quanti aerei verranno battezzati con il suo nome) e con McKenzie Grieve navigatore. Dopo quattordici ore e mezza, il motore si surriscalda, Hawker cambia rotta per portarsi verso zone solcate da navi, bene o male riesce ad ammarare.

Verranno raccolti da un mercantile danese, il Mary, sprovvisto di radio. Su Muriel, la moglie di Harry, cade il silenzio della disperazione, spezzato da una telefonata che arriva dalla Scozia. “Sono Harry, sono vivo”. All’esordio di giugno, l’americano Albert Cushing Read decolla dalla base di Rockaway, New York, diretto a Plymouth, su un idrovolante NC4: arriveranno, ma dopo 23 giorni e sei tappe. La nave era più rapida e, in ogni caso, il volo non rientrava nelle modalità indicate da chi offriva il ricco premio.

Il 14 giugno 1919 su Terranova è una bella giornata. “Svegliati, Arthur, dobbiamo volare sull’Atlantico”. Scesero a fare colazione e miss Agnes Dooley disse che aveva preparato qualcosa per il viaggio allungando un pacco di carta oleata che conteneva panini e un thermos di caffè. Brown contribuì alle magre salmerie con una fiaschetta di whisky. Si avviarono veso Lester’s Field, non un granché come prato di decollo, “ma in due settimane di ricerche non ne avevamo trovato di migliori”, ammise Alcock. Il responsabile dell’ufficio postale aveva fatto sovrastampare un francobollo e affrancare trenta chili di corrispondenza che affidò ai due britannici. All’1,40 i motori rombarono, la rincorsa cominciava. Appesantito da 3.900 litri di benzina, il Vimy faticò ad alzarsi dal suolo. “Evitammo la cima dei pini per qualche pollice”, ricordò Brown. “Alle 1,45 eravamo in aria”, sbrigò Alcock. Lamento di sirene dalle navi alla fonda di St John’s, saluti dai marinai dei pescherecci. Bel tempo, avevano assicurato quelli del meteo: durò poco.

Dopo tre ore, nebbia fitta, radio che si guasta, un pistone che sprigiona scintille, gelo, rumore assordante, comunicazioni difficili tra di loro anche se John e Arthur sono seduti fianco a fianco. Un fronte di nuvole alte, l’aereo squassato come una foglia, l’altimetro che indica una discesa a rotta di collo, in vite: da 4000 a 1000 piedi in un lampo. Alcock riesce a riprenderlo quando il mare è a 65 piedi, venti metri. Risalgono, raggiungono i 2400 metri, mangiano qualche panino di miss Agnes, bevono una birra, Brown anche un sorso di whisky prima di provare a cantare. “Era la canzone della rondine e del fiume che non si secca”, ricordava. Tocca a lui pompare la benzina nel serbatoio principale. Buio, uno squarcio, le stelle: Vega, la Polare. “Siamo in rotta” scrive su un foglietto Alcock, Brown annuisce. Sono le 00,15 e a Londra nelle redazione del Daily Mail è partita l’attesa. Dove sono? Eppure hanno una radio.

A palmi, mezza via, qualcosa di più. La turbolenza arriva violenta, piena di neve, di ghiaccio che gonfia i cavi, che pesa sulle ali. Brown deve fare l’acrobata volante, andare prima su un’ala e poi sull’altra, a scrostare con un coltello. Per quattro volte. I motori ricominciano a tossire, ancora una caduta libera. “Questa volta sentimmo l’odore del mare”, era il ricordo di Brown. Salvi per sei, sette metri. Ancora una volta risalgono, sino a 3000 metri, ma il ghiaccio non li risparmia. Una discesa, questa volta graduale, sino a quando, intorno ai mille metri, la crosta comincia a sciogliersi. Qualche raggio di sole. “Secondo me, siamo sempre in rotta”. Ancora più in basso: a 300 metri, finalmente fuori dalle nuvole che non danno scampo: “Non mi sembra Galway, quella”. Non lo è, è la magnifica, selvaggia contea che sta appena a nord, Connemara, con lo sfondo delle dodici balze. “C’è un prato, atterriamo”. Non era un prato, ma fa lo stesso.

Il trionfo: ebbero le 10.000 sterline dalle mani di un 43enne Winston Churchill, segretario di Stato. Ne trattennero 4000 a testa e ne destinarono 2000 ai meccanici della Vickers. Erano, in quei giorni, gli uomini più popolari di Gran Bretagna e dell’Impero e in loro onore, a Londra, fu preparato, un menù speciale: uova alla Alcock, sogliola alla Brown, pollo alla Vimy, insalata Clifden, dessert Britannia, torta Gran Successo. Alcock morì sei mesi dopo mentre pilotava un idrovolante verso il salone aeronautico di Parigi: si schiantò a Cote d’Everard, in Normandia. La notizia raggiunse Brown in viaggio di nozze in America. Toccò a lui assistere allo sviluppo dell’aviazione e la sua applicazione spietata alla guerra: scomparve nel ’48 a Swansea.

Cinquant’anni dopo il volo, Canada e Gran Bretagna stamparono un francobollo. A Clifden c’è un monumento di taglio moderno: la coda di un aereo. Quello appena fuori Heathrow è più classico: uno accanto all’altro, con il caschetto da volo. È possibile rintracciarli anche all’Alcock and Brown hotel di Clifden che porta come stemma araldico il Vickers Vimy dell’impresa: gli albergatori sostengono sia a qualche tiro di sasso da dove atterrarono. Un tuffo in quel miracolo vecchio 99 anni costa 70 euro a notte.

 

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