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I sentieri di Cimbricus / Bob Hayes, l'uomo che sollevava le zolle

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Sabato 24 Marzo 2018

hayes 2

L'improbabile incursione di Usain Bolt nel calcio, solo marketing (Puma)? Ben altri sono e restano i precedenti.

di Giorgio Cimbrico

Finalmente Bolt in campo, giallo-Giamaica tra i giallo (neri) del Borussia Dortmund, Renania. Sognava l’Old Trafford (lo United è nel suo cuore, pare) e invece deve accontentarsi di una partitella di allenamento, organizzata dalla Puma, che, con lui di mezzo, fa segnare uno scontato record del mondo: presenti 173 appartenenti alla tribù dei media a non perdere una mossa, un tocco, un allungo. Il pensionato aspirante, il Lampo impegnato in un provino fa sempre notizia, specie se segna di testa e su rigore, offre qualche buon pallone, pasticcia su qualche altro, esce e rientra dal gioco. “Non ero al top, ma ho capito come posso migliorarmi”, racconta. Ha quasi 32 anni, e ne sono trascorsi dieci dalle prime comete che ha fatto balenare.

Dopo il cricket dell’infanzia, la velocità dell’adolescenza, della giovinezza e della prima maturità, ha deciso di darsi una terza dimensione. Che, a occhio, sarà quella di un hobby formato extralusso (con una spruzzata di marketing). A cavalcare in due mondi e a vincere due derby molto diversi ce n’è stato uno solo, scomparso quando Usain cominciava a far parlare di sé per una precocità mozartiana: Bob Hayes.    

Per diventare campione olimpico dei 100, uno dei requisiti è avere un nome breve, da titolo si diceva in vecchio gergo giornalistico: Owens, Hary, Lewis, Bolt. Il massimo, nella successione biblica scandita dai quadrienni che portano da un’edizione all’altra dei Giochi, è averlo di cinque lettere e quasi uguale: Hayes e Hines, Bob e Jim, che vennero uno dopo l’altro nel segno della strapotenza e dell’agilità e che ebbero destini diversi nel football: Hayes, formidabile wide receiver che costrinse all’invenzione di un nuovo schema difensivo, vinse l’anello con i Dallas Cowboys (ancora oggi è l’unico nella storia a affiancare una vittoria ai Giochi con un successo nel SuperBowl); Hines, dopo due misere stagioni con i Miami Dolphins, finì per occupare il decimo posto nella classifica 1970 dei peggiori giocatori della NFL.

Una spiegazione c’è ed è molto semplice: Bob era un giocatore di football prestato all’atletica, Hines un velocista che provò a metter le mani su un po’ di dollari, sbarcando su un continente che si rivelò estraneo alle sue attitudini.

Hayes corse su terra rossa, in una prima corsia appena calpestata dai marciatori all’arrivo della 20 km, dopo aver piantato i blocchi con un martellone in legno fornito dai solerti giapponesi, a zero metri sui livello del mare; Hines in terza, su un “tapis roulant” di tartan, a 2200 metri di altitudine. Portava addosso il 279: sommare i primi due numeri significa ottenere 9 e 9, il risultato che andò a libro, accanto al rilevamento che, qualche anno dopo, con l’adozione ufficiale del cronometraggio elettrico, lo rese il fondatore dell’era dei tempi automatici: 9”95.

Ad aprire questa galleria dei “flash uomo lampo”, spetta a Hayes: quel 10”06 di Tokyo, con 1,3 di vento a favore ma su una superficie umidiccia e poco regolare, venne rilevato con uno scarto di cinque centesimi tra il colpo di pistola e l’avvio del tempo, registrato così come 10”01 e reso manualmente in 10”0, secondo la regola vigente allora, per cui i centesimi dall’1 al 4 portavano a un arrotondamento al decimo inferiore e quelli dal 5 al 9 a quello superiore. Tre cronometraggi manuali gli assegnarono 9”8, 9”9, 9”9: Hayes aveva anticipato di quattro anni il festival di Sacramento.

“Mi dicevo: corri rilassato, non rischiare di saltare In aria”: le immagini non corrispondono a quanto Bob tentava di imporsi: ogni appoggio è una martellata degna di Thor. “Potevo correre in 9”8, ne diventai conscio qualche giorno dopo”. Quel buonanima di Hayes, scomparso a meno di 60 anni per un cancro alla prostata, sta parlando dell’ultima frazione della staffetta che si trasformò in un tuono più che in un fulmine, in una rimonta che si vede soltanto nella finzione cinematografica e che Bob rese reale e che germoglio in leggenda: 8”9, ma qualcuno giura che le lancette si siano fermate a 8”6, mentre lui faceva volare zolle di terra, riassorbiva Polonia, Francia, Giamaica e Urss, vinceva con tre metri di margine. In tribuna, Owens estasiato. “Mai visto una cosa simile”.

Era il Toro di Jacksonville, era l’uomo del 9”1 sulle 60 yards, era l’improvvisato velocista che aveva costretto Lyndon Johnson a un intervento presidenziale: “Esentalo dagli allenamenti e fa in modo che non si infortuni”. Il destinatario del caldo consiglio che giungeva dalla Casa Bianca era Jake Galther, coach della Florida University dove regnava Bob, sovrano dei touchdown nel mondo NCAA.

 

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