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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
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Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





I sentieri di Cimbricus / Se lo sport insegue le identita' linguistiche

Giovedì 21 Dicembre 2017

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di Giorgio Cimbrico

Gianluca Barca, direttore di All Rugby e soprattutto grande amico, mi ha appena inviato un indirizzo, Bucs, che sta per british universities and colleges sport. Barca ha una figlia, Mathilda, che studia lassù e gioca a lacrosse, lo sport dei pellerossa, uno dei pochi non inventati da quelle parti: un altro è il polo che viene dalle valli dell’alto Indo e dell’Afghanistan. In realtà non c’è molto da dire: cliccate e vi si spalancherà davanti il magazzino dei mondi, l’isola del tesoro, il paradiso all’improvviso. O forse solo la possibilità di essere normali.

Detto in poche parole, e per non rovinarvi sorprese che potrete trovare pollice dopo pollice, Bucs contiene, debitamente aggiornati, tutti i dati e tutti i risultati di tutte le attività sportive di tutte le università britanniche: l’alfa è Aberdeen, l’omega è York. In mezzo, tutte le altre lettere dell’alfabeto e tutte le zone geografiche, Galles e Ulster comprese.

Si gioca a tutti gli sport, compreso calcio gaelico, rugby league, football americano e, inevitabilmente, cricket, e ogni università, ogni college, per ogni disciplina, ha una, due, quattro squadre che affrontano le altre nelle quattro aree in cui il Regno Unito è stato diviso: il gioco di parole casuale. Il giorno deputato è il mercoledì: non si studia e si scende in campo. Esiste anche un campionato d’elite, un fiore all’occhiello, ed è il Super Rugby: a occhio, in campo vanno ragazzi che in Italia giocherebbero in Eccellenza o nelle due franchigie del Pro 14.

Sembra di proporre l’uovo di Colombo ed è proprio quello che metto in tavola: tutta questa mostruosa, molteplice, variegatissima attività è solo e soltanto per universitari e universitarie. È evidente che ogni università dispone di fondi da destinare alle gare, alle trasferte, ali allenatori, alla manutenzione degli impianti, all’equipaggiamento. I britannici sono intraprendenti ed è probabile, se non certo, che molti atenei e colleges abbiano anche degli sponsor locali che danno una mano.

E un viaggio che costa poco, un tocco di dito, e val la pena di essere intrapreso. È più eloquente di Demostene, fa capire un sacco di cose. Ad esempio che lo sport non è un diritto né un dovere: semplicemente, fa parte della crescita. Difficile, davanti a un’offerta del genere, dire: no, io preferisco la playstation o, come è capitato qui da noi (sob), frequentare un corso per diventare anoressici. Avvertenza finale: in tutto questo, il comitato olimpico britannico e le federazioni non c’entrano niente. Questo è Bucs, lo sport per chi studia all’università e finirà in qualche foto che verrà conservata nelle bacheche della scuola. Da casa mia, Britannia è a un’ora e mezzo d’aereo (è una cosa che mi consola constatare) ma può anche esser lontana un anno e mezzo luce.

Patria come identità linguistica
 
Passiamo a un altro argomento. Dopo aver perduto gli argentini nel rugby, stiamo per dover fare a meno degli sciatori e degli "slittinisti" nati in quella zona che noi chiamiamo Alto Adige e loro, forse più correttamente, Sud Tirol? L’offerta del passaporto austriaco dei due giovani Gauleiter saliti al potere alla Hofburg può essere allettante o irresistibile.

Identità linguistica: su questo principio la Germania ha costruito le sue brevi glorie e le sue immani tragedie. Ho capito parecchio un giorno che sono capitato a Weimar: sulla piazza principale c’è il monumento che deve dare l’idea di Heimat, di Nazione. Non rappresenta un Imperatore dei Primo Reich né Bismarck, ma Goethe e Heine che si abbracciano. Ora, io non ricordo più chi l’abbia detto, ma la frase può riassumere volumi di storia: “Dove si parla tedesco, lì è patria”. E che la intendessero molto vasta – Grossdeutschland – si capisce da due versi del Deutschland ueber Alles (musica di Franz Joseph Haydn, dal quartetto Kaiser) che sono stati cancellati: dalla Mosa al Memel, dall’Adige al Belt. La Mosa corre sul confine francese, il Memel è la Lituania, l’Adige lo conosciamo, il Belt è il fiume dello Schlewig Holstein affacciato sulla Danimarca.

E, se è per questo, in tedesco si parlava in Slesia e altre province polacche, in Lettonia, nella Galizia austroungarica, sul corso del Volga e del Don, dove Pietro il Grande aveva favorito l’immigrazione di esperti minatori e metallurgici, in Romania, popolata specie nella parte nord da coloni sassoni e svevi, in Ungheria, nella zona occidentale della Cecoslovacchia, quei Sudeti che furono una delle micce accese sotto l’Europa che si avviava alla catastrofe, anche se il povero Neville Chamberlain tornò a Londra sventolando un foglio: “Vi ho portato la pace”.

Per l’ormai vicinissima Pyoengchang potremo ancora contare sui nostri “ausiliari” che parlano un curioso e duro italiano, ma dopo?

 

 

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