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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
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Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
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I sentieri di Cimbricus / Cinquanta anni dopo il Cleveland Summit

Domenica 10 Dicembre 2017

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di Giorgio Cimbrico

Cinquanta anni dopo il "Cleveland Summit", Kareem Abdul Jabbar parla di America, di razzismo, di Trump al potere in una meravigliosa e interminabile intervista con Donald McRae, del Guardian: la cosa migliore, in questi casi, è andare a cercarsi l’originale sullo sterminato sito, anche per imbattersi in un paio di memorabili foto bianco e nero scattate in quell’occasione. In una, da sinistra a destra, al tavolo dei relatori, appaiono Bill Russell, Alì, Jim Brown, stella della NFL, e un giovanissimo Kareem che si chiamava ancora Lew Alcindor e non aveva ancora abbracciato l’Islam; in un’altra, Alì stretto in un abbraccio tra Russell e Kareem, sembra un nano.

Il "Cleveland Summit" riunì i campioni neri: si trattava di decidere una strategia dopo che Alì era stato privato del titolo. Kareem optò per un boicottaggio personale: non sarebbe andato ai Giochi di Messico, “e apprezzai quel che fecero Smith e Carlos dopo i 200”.

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E’ cambiata l’America di quel tempo? O spettri che non hanno mai lasciato la scena sono stati resi molto solidi da Trump? “Trump è un buco di culo e se è quel che è, se siede dove siede, è perché ha saputo riunire attorno a sé l’America del razzismo, dell’esclusione. Neppure i Bush erano riusciti a tanto: nelle loro amministrazioni neri e messicani hanno avuto posti di rilievo”.

Kareem non ha mai smesso di parlare, scrivere, discutere, ricordare le brutalità vissute e viste, lottare: prima intervista, per il giornale del college, a Martin Luther King prima che il reverendo venisse ammazzato dal solito pazzo, dal solito fanatico di cui la storia americana è sinistramente molto ricca. Applaude Colin Kaepernick e quella che lui chiama “rivoluzione su un ginocchio”, un gesto che si è comportato come il mercurio che sfugge dal termometro o l’inchiosto che sgorga dal calamaio: proselitismo, rinfrescata alle coscienze e una fondazione che, nel giro di cinque anni, sarà in grado di raccogliere 100 milioni di dollari per aiutare chi ne ha bisogno. Il vecchio che ha allineato sei titoli NBA, che è ancora il più micidiale realizzatore della storia, allunga anche un consiglio: “Andate a vedere ‘I am not your Negro’, il documentario su James Baldwin: lui sì che ha avuto una vita difficile”.

Un dialogo, che diventa monologo, bello e coinvolgente, uscito giusto nelle ore in cui Lindsey Vonn ha detto che lei in Corea andrà, ma non per Trump. Un vecchio, allampanato, interminabile nero e una biondona da copertina che non si nascondono, non si mimetizzano, non hanno paura di dire quello che pensano. Quel che ha fatto Pep Guardiola quando è andato in piazza a sostenere l’indipendenza della Catalogna, parlando da catalano, non da allenatore del Manchester City.  

Qui, una gabbietta di pappagallini che leggono, con difficoltà, i messaggi più o meno vuoti, che vengono loro sottoposti prima delle partite o in occasioni pubbliche in cui vengono chiamati come testimonial. Ho provato a ricordare di quando ho sentito per l’ultima volta uno sportivo italiano esprimere un’opinione politica e sono finito, nel vortice del flashback, a più di quarant’anni fa e a Paolo Sollier che era comunista, lo diceva e aveva anche scritto un libro.

Nel frattempo indifferenza, ipocrisia, privilegio, un cocktail che ammutolisce e che ora, nel regime dei social (regime nel senso più stretto: potere assoluto e così pauroso), rende ancora più circospetti. Muti.

 

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