Italian Graffiti / Oliviero Beha ... mezzofondista mancato
Domenica 14 Maggio 2017di Gianfranco Colasante
Proprio l’altro giorno m'era capitato tra le mani “Un cuore in fuga”, uno dei libri di maggior successo di Oliviero Beha, libro dedicato alla “seconda vita” di Gino Bartali (ora pubblicizzata ben oltre quanto avrebbe voluto la riservatezza di Ginettaccio). Bartali è stato – assieme al Grande Torino – il mito della mia fanciullezza. Diversi anni fa, un mio libro si era classificato al secondo posto ad un “Bancarella Sport”, preceduto proprio da una biografia su di lui. Bartali, ch’era presente alla cerimonia sulla piazzetta di Pontremoli, mi dette la mano, calda e pesante, e chissà perché quella “sconfitta” mi parve meno importante. Perchè avviare un ricordo in memoria di un amico partendo proprio dai libri? Perchè potrebbero aiutare a capire. Tra i tanti titoli di Beha citati in queste ore, uno almeno ne manca. Anzi due.
Il primo, che gli detti una mano a stampare un po' alla macchia, si titola "Inverso": è una raccolta di poesie, non sempre di facile lettura e comprensione, più provocatorie che ermetiche, ma che ottenne un premio selezione Viareggio per l'opera prima. Da qualche parte, in una delle mie librerie, conservo ancora una copia che in un dopocena da noi, dedicò a me e Marinella: "ad una strana coppia" aveva scritto, chissà poi perchè. Il secondo, una inchiesta sul Mondiale 1982 e la presunta corruzione che spianò agli azzurri di Bearzot la strada del titolo mondiale, un libro già pronto da Feltrinelli che si fermò sulla soglia della distribuzione. Si disse, a mezza voce, per l'intervento di chi aveva grande interesse per la vicenda e la necessaria auterevolezza per imporlo.
Giornalista, conduttore televisivo, scrittore. Opinionista, come si dice oggi. Mi fermerei a polemista raffinato e arguto, non di rado volutamente sopra le righe, molto spesso ironico, mai istrionico. Se non s’è capito, confesso di avere avuto da sempre un debole per Oliviero, che ho sempre chiamato Oliver. Com’era allora Beha da ragazzo? Direi, in una parola, sfrontato oltre misura. Irridente. Figlio di un avvocato, fiorentino di nascita, romano di adozione, già al primo impatto colpiva una scintillante intelligenza venata di un’ironia un po’ melanconica, crepuscolare. Questa era la caratteristica prima di Oliviero: colpiva d'acchito e intrigava subito, capitò a "Barbapapà" Scalfari, come prima era capitato ad Ormezzano che lo aveva voluto ad ogni costo a Tuttosport, e poi ad altri, come successe in Rai col compianto Andrea Barbato. Capitò anche a Giulio Onesti che per qualche tempo pensò a lui come capo dell'ufficio stampa. Prima che tutto si consumasse in mugugni e successivi abbandoni.
Dicevo di Beha. Voi già sapete tutto, della sua verve, del suo essere fedele cocciutamente a se stesso e volutamente “contro”. Per conferma chiedere ad Eugenio Scalfari che molto lo aveva apprezzato e finì per metterlo alla porta. Veniva da Montesacro, alla periferia nord di Roma. Lo stesso quartiere dove da ragazza aveva abitato mia moglie Marinella. Solo anni più tardi avrei scoperto che lui e Marinella, da piccoli, avevano abitato sullo stesso pianerottolo e giocato per anni nello stesso cortile.
L’ho conosciuto quando, ancora ragazzino, arrivò all’Acquacetosa – il nostro campo della via Paal -, allampanato studente dell’Orazio, portato all’atletica da Elio Sicari ch’era il suo professore di educazione fisica. Con una saltuaria tendenza al mezzofondo corto. Anche in atletica, Olivier era sfrontato oltre i limiti. Il suo mito (se mai ne ha avuto uno) e il suo obiettivo era Jim Ryun, il ragazzo del Kansas che in quegli anni, ventenne, faceva incetta di record mondiali dagli 800 al miglio. Ecco, quello era un altro risvolto di Oliver: non fermarsi mai ai traguardi intermedi. Anche se in realtà rimase un mezzofondista di scarso peso e ancora minore continuità, fermandosi ad un modesto 3’55" ottenuto a 22 anni.
Poi si stancò e, irrequieto com’era, dopo una laurea in storia medievale se ne andò in Spagna a fare il “lettore” di italiano in qualche università che non ricordo, trovando lì il modo di laurearsi anche in filosofia. Per Oliver, come ho detto, avevo un debole e continuai a seguirne le cadute e le risalite, incontrandolo di tanto in tanto e, se posso dire, assistendolo da lontano. Come quando volle che lo accompagnassi, noi due soli, nell'ultima visita a suo padre nella camera mortuaria del Fatebenefratelli. O come capitò la sera che firmò l'adozione di sette fratellini del Corno d'Africa.
Finito lo sport, con maggior concretezza di quanto avesse messo a percorrere le orme di Ryun, restava viva dentro di lui la voglia di fare il giornalista e ci riuscì, sia pure scegliendo le strade più ardue e le più tortuose. Dagli inizi col giornalino del CUS a Paese Sera, a Tuttosport, fino alla Repubblica, e poi alla RAI (dove entrò col tappeto rosso, ma dove poi lo tennero a lungo a bagnomaria, come in quegli anni capitava a tanti, e forse capita ancora). Con una caratteristica costante: non trovarsi mai in sintonia coi direttori. E la tendenza a traumatici divorzi.
Il resto lo conoscete e lo avete potuto verificare spesso su vari canali televisivi. Come ho già detto, ha scritto molto, Oliver, con un stile tutto suo particolare, rincorrendo spesso il pensiero smarrito in lunghi periodi nei quali gli aggettivi latitavano almeno quanto la punteggiatura. Ma ha avuto sempre cose da dire, anche se non sempre condivise da chi abitava (e abita) i piani alti. Molti i suoi libri, quasi tutti puntati come una colt di grosso calibro contro il calcio che andava involgarendo. Una visione premonitrice che gli va riconosciuta e che i fatti avrebbero suffragato oltre ogni pessimismo. L'inizio, un libro a quattro mani pubblicato col sociologo Franco Ferrarotti: "All'ultimo stadio". Eravamo appena al 1983, la preistoria. Ne seguiranno molti altri.
Come concludere? Se vi va bene un aneddoto, allora ve ne racconto due. Il primo: l’irriverente esame da giornalista professionista, quando provò lui a fare l’esame alla commissione, pagandolo con un rinvio del contratto di altri sei mesi. L’altro: la partecipazione al concorso del CONI per il "Racconto sportivo", quando presentò a suo nome un brano marinaresco scritto da … Conrad. Rivelando la beffa appena in tempo (ma la commissione quel racconto l'aveva già scartato).
Due aneddoti che forse aiutano a comprendere una personalità a cui gli stanchi e asfittici rituali dello sport andavano stretti. E, perché no, una dissacrante intelligenza, difficile da ammaestrare e ancora più da amministrare. (Nella foto, sulla pista dell’Acquacetosa, davanti a Gianni Del Buono).
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