Highbury
© www.sportolimpico.it / BiografieInghilterra-Italia 3-2 [1934]
Calcio
(gfc) La retorica imperante in quegli anni nel Paese si impossessò immediatamente di quell'incontro perso contro un’Inghilterra, ritenuta ancora la maestra sdegnosa del football, e gli azzurri divennero i “Leoni di Highbury”. Quella stessa retorica che di una partita certamente non bella, spesso violenta fino allo scontro fisico – perifrasi di modi diversi, e distanti, di vedere e praticare lo sport – fece un’occasione di orgoglio nazionale. Ma è un fatto che quella sconfitta portò alla Nazionale azzurra tanta gloria quanta, almeno, ne era venuta dalla vittoria sulla Cecoslovacchia nella finale mondiale di cinque mesi prima.
Furono gli inglesi, che si ritenevano maestri insuperabili nel “loro” football, e che avevano snobbato i primi due Mondiali (anche, questo va chiarito: il vero motivo era per una bega con la FIFA che voleva una sola rappresentativa e non quattro come pretendevano i britannici), a sfidare gli italiani per ristabilire l’assunto che i veri campioni del mondo dovevano ritenersi ancora e sempre i compassati sudditi di re Giorgio.
Il periodo storico non era dei migliori per favorire amicizia e tolleranza tra noi e gli inglesi e l’incontro veniva presentato, sulle opposte sponde, come uno scontro nel quale confluivano motivazioni di matrice non solo sportiva. I nostri ospiti poi ci fecero l’affronto di non aprire il mitico Wembley, il tempio del loro calcio, dirottando l’incontro sul più modesto campo di Highbury, tradizionale tana dell’Arsenal, per di più in novembre. Al fischio d’inizio i bianchi si gettarono in avanti a testa bassa, lanci lunghi e grandi fiondate, terzini sulle ali, centromediano arretrato sul centravanti rivale, laterali e interni a chiudere quel quadrilatero che era la caratteristica del recente WM, che noi – fedeli al “metodo” –ribattezzammo “sistema”, e che consentiva un gioco d’attacco inesauribile e una difesa fin troppo arcigna.
Era la seconda volta che gli azzurri incontravano i “leoni britannici”. Un anno prima, a Roma, era finita in parità, 1 a 1, soprattutto per una specie di nostra sudditanza, una certa nostra paura di vincere. Ora, contro un Inghilterra rinnovata per otto-undicesimi, parve subito chiaro che non c’era molto da stare allegri. Pozzo aveva fatto le sue contromosse. Richiamato Ceresoli al posto Combi, spostato Meazza al centro dell’attacco per sostituire Schiavio, promosso Serantoni ad interno destro. La nostra era comunque una squadra logora che si avviava alla fine di un ciclo e lo dimostrò subito. Già dopo 12’ perdevamo per 3 a 0 e per fortuna che al primo minuto Ceresoli aveva parato un rigore. E fu proprio Ceresoli, eroe di quell’umido pomeriggio di nebbia, ad opporsi, spesso da solo, ai veementi assalti dei gagliardi padroni di casa, impedendo che l’incontro si tramutasse, già nel primo tempo, in un autentico disastro per noi.
Ma è anche vero che dopo soli 4’, quando si era ancora a reti bianche, Luisito Monti – il fulcro della difesa – era stato fatto fuori da un terribile pestone di Drake che gli aveva procurato la frattura dell’alluce del piede destro, obbligandolo prima a spostarsi a mediano destro, poi all’ala destra e, infine, ad abbandonare il campo. Nello spogliatoio venne visitato da un dottore scozzese che si tolse la pipa di bocca solo per poche parole: “Broken. To the hospital”.
Da quel momento gli azzurri, ridotti in dieci e con una difesa improvvisata, giocarono solo per contenere gli avversari, tentando di rallentare il ritmo e opponendosi quasi con disperazione alle loro folate. Ma nel secondo tempo gli inglesi non tennero più il ritmo infernale che s’erano imposti e gli italiani ne trassero motivo di maggiore audacia. In due minuti Peppin Meazza riuscì a buttare in rete gli unici palloni utili capitatigli a tiro, al 14’ al volo su passaggio di Orsi e al 16’ di testa, raccogliendo una punizione di Ferraris IV.
Tanto bastò per rinfrancare gli uni e deprimere gli altri. Sul 2 a 3, con mezz’ora ancora da giocare e una superiorità azzurra che si faceva sempre più evidente, gli spettatori, tutti di parte britannica, cominciarono ad avere paura. La baldanza era finita e i cori irrisori si erano zittiti. Ma prima Guaita, poi ancora Meazza e Ferrari li graziarono e l’incontro si concluse con gli italiani all’attacco e gli inglesi a difendere un vantaggio fattosi fin troppo esiguo. In seguito, sarebbero stati proprio i padroni di casa a lamentarsi per il gioco violento degli italiani. Nelle sue memorie, Pozzo è molto parco di parole su quel match. Ricorda solo “lasciò, per qualche tempo, parecchi strascichi quell’astioso incontro di Highbury. Nessuno di coloro che vi hanno avuto parte diretta, o che vi hanno assistito, lo ha dimenticato”.
La sconfitta degli azzurri, rimbalzata in Italia dalla radiocronaca di Carosio e amplificata a dismisura dai giornali non solo sportivi (La Stampa, il quotidiano notoriamente molto compassato, dedicò tutta la prima pagina all’avvenimento) venne presentata come immeritata e ingiusta. E in parte sembrò tale, anche se la retorica che ne sfumò i contorni non rese piena ragione al valore dei giocatori inglesi, allora ancora superiore al nostro.
Il tabellino dell’incontro:
INGHILTERRA-ITALIA 3-2
(Highbury, 14 Novembre 1934 – ore 14,30)
Reti: 8’ Brook, 10’ Brook, 12’ Drake, 59’ Meazza, 61’ Meazza.
Inghilterra: Moss; Male, Hapgood (cap.); Britton, Barker, Copping; Matthews, Bowden, Drake, Bastin, Brook. - All.: Cooch.
Italia: Ceresoli; Monzeglio, Allemandi; Ferraris IV (cap.), Monti, Bertolini; Guaita, Serantoni, Meazza, Ferrari, Orsi. - All.: Pozzo.
Arbitro: Olsson (Svezia).
(revisione: 22 Maggio 2014)
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