Berruti
© www.sportolimpico.it / BiografieLivio Berruti [1939]
Atletica
(gfc) È stato il primo europeo a vincere la corsa dei 200 metri ai Giochi Olimpici e seppe farlo nel modo più autorevole, con il corollario di due consecutivi record mondiali. Una impresa che vent’anni dopo, sarebbe stata eguagliata da Pietro Mennea, ma in ben altre condizioni di ambiente e di concorrenza. Al nome di Berruti resta legato l’ultimo periodo romantico dell’atletica, quando le doti naturali e il talento sapevano ancora prevalere sugli allenamenti esasperati e sulle alchimie oscure dei laboratori.
Berruti si è invece allenato sempre con misura e i carichi di lavoro ai quali si sottoponeva appaiono modesti, anche se misurati con il metro ridotto del suo tempo. Tuttavia, per alcune stagioni, è stato indiscutibilmente il miglior velocista al mondo sulla “distanza della verità”, come gli americani chiamano il mezzo giro di pista. La sua dote precipua era un’azione di corsa facile, mai contratta, uno stile di corsa esemplare con una frequenza di passo che non influiva sulla leggerezza naturale dell’andatura. Il suo modo di affrontare la curva, senza alcuna interruzione di ritmo, è rimasto proverbiale e ha costituito la carta decisiva per i suoi successi. Partente mediocre, ma “curvista” sopraffino, riusciva ad esprimere la maggiore velocità proprio all’ingresso in rettilineo, là dove per tutti ha inizio l’inevitabile salita, e dove i suoi avversari dovevano dannarsi per non sbandare mentre cercavano il nuovo assetto di spinta.
Nato a Torino nel maggio 1939, figlio unico in una benestante famiglia originaria di Stroppiana, nel vercellese, fisico leggero e filiforme, alto un metro e 80 per 66 chili, prodotto dell’allora fiorente sport scolastico vagheggiato e costruito da Bruno Zauli, si rivelò a diciannove anni diventando il primo italiano capace di correre i 100 metri in 10”3. Aveva iniziato con l'atletica quasi per caso, rinunciando di malavoglia al tennis. Studente liceale al Cavour (compagno di scuola di Gian Paolo Ormezzano), fu avviato alla velocità dal professore di ginnastica Melchiorre Bracco che lo voleva in squadra per la fase provinciale degli Studenteschi. Prima gara cronometrata sui 100 vinta in 11"4, tempo corretto in breve fino agli 11" netti. Sufficiente perchè la FIDAL lo inviasse nel centro federale di Schio.
Meno scontato fu il passaggio ai 200 metri. Come ha raccontato più volte lui stesso, un amico medico sconsigliò il padre che, preoccupato, scrisse in federazione perchè gli evitassero quella distanza: "E' troppo gracile per quello sforzo". Per fortuna non venne ascoltato da Peppino Russo, responsabile della velocità, e dallo staff federale. Tanto è vero che già nel 1959, ventenne, esplose anche sulla distanza doppia correndo in 20”7 all’Arena, la cui pista in terra aveva allora uno sviluppo di 500 metri. Nel Gotha della velocità mondiale entrò nelle settimane seguenti battendo a Duisburg, nell’arco di 24 ore, i due migliori sprinter europei del tempo: il tedesco Armin Hary sui 100 e il francese Abdou Seye sui 200. Premessa alla consacrazione del 1960, anno dei Giochi di Roma, quando dette la misura piena del suo valore correndo due volte in un mese i 200 in 20”7, prima a Varsavia e poi a Siena (in entrambe le occasioni con curva completa). La facilità con la quale pervenne a questi riscontri cronometrici convinse il suo allenatore, il modesto e valoroso Russo che ne aveva plasmato le doti senza forzarle mai, a schierarlo ai Giochi romani solo sui 200 metri, benché in primavera avesse eguagliato con 10”2 il record continentale dei 100 metri.
Dopo alcuni test d’allenamento confortati da un promettente 15”3 sui 150 metri, il 2 settembre Berruti aprì all’Olimpico il sipario sulla sua epopea vincendo facilmente la batteria in 21”0 ed poi il quarto in 20”8. Il giorno successivo, nella seconda semifinale, affrontò i tre uomini che all’epoca detenevano in comproprietà, con 20”5, il record mondiale: l’inglese Peter Redford e gli americani Ray Norton e Stone Johnson, un terzetto sicuramente ben più esperto e navigato del taciturno e testardo piemontese. Una curva formidabile, completata da un’azione irresistibile in rettilineo, gli consentirono di concludere la gara più veloce della sua vita fermando i cronometri a 20”5, primato mondiale eguagliato, mentre Norton (20”7) e Johnson (20”8) eliminarono Redford (20”9), quarto. Nell’altra semifinale, più lenta, s’erano già qualificati Seye (20”8), il polacco Marian Foik (21”0) e il terzo degli americani, Les Carney (21”1).
Il ventunenne Livio impiegò le due ore che lo separavano dalla finale prima rifugiandosi nell'ombra degli spogliatoi, con la sola compagnia di una bottiglietta di aranciata, poi sonnecchiando sui sacconi di caduta del salto con l’asta, scaricando nella maniera più tranquilla possibile una tensione che non pareva incidere sui suoi nervi. Ed eccoci alla finale, entrata e rimasta nella storia dello sport italiano. Dalla seconda alla settima corsia i finalisti si schierarono nell’ordine seguente (all’epoca, e per l’ultima volta, le finali fino ai 400 si disputavano a sei concorrenti): Foik, Seye, Johnson, Berruti, Norton, Carney. Erano le ore 18,00 del 3 settembre. Prima del via Berrutti strinse la mano a tutti gli avversari. Ci fu una partenza falsa di Berruti e Johnson, ma non assegnata dal maggior starter italiano, il fiorentino Alieto Bertaccini [1897-1964]. Al via valido, Berruti volò sulla curva, leggero come non s’era mai visto prima: si presentò sul rettilineo con un vantaggio decisivo e vinse con largo margine respingendo il ritorno di Carney.
Una delle sequenze più azzeccate del film “La grande Olimpiade” di Romolo Marcellini lo mostra all’ingresso della dirittura mentre, davanti ai suoi passi, si involano leggere alcune colombe posatesi sulla pista. Quasi una metafora della sua corsa. Il tempo finale eguagliò ancora il 20”5 del primato mondiale (20”62 sarebbe stato il responso centesimale, quando in semifinale era stato pari a 20”65). Alle sue spalle Carney (20”6) precedette Seye (20”7), Foik (20”8), Johnson (20”8) e Norton (20”9): si trattava della più veloce gara dei 200 metri mai corsa fino a quel momento. E su una pista in tennisolite.
Nel 1961, sullo slancio, il rendimento di Berruti fu ancora più elevato e gli permise di accreditarsi come “Numero 1” al mondo sulla sua distanza preferita, nonchè ancora primo tra gli europei sui 100 metri. Malgrado il suo impegno atletico in seguito risultasse piuttosto saltuario, causa gli studi che lo porteranno ad una laurea in chimica e una certa disaffezione, fu capace ancora di classificarsi quinto – ma sempre primo tra gli europei – ai Giochi di Tokyo del 1964. Ancora nel 1968, al Messico, gli riuscì di disputare con la 4x100 la sua terza finale olimpica: un primato raro per uno sprinter.
La seconda vita di Berruti iniziò al ritorno dal Messico. Mettendo da parte la chimica, attirato dal fascino della pubblicità, tra il 1970 e il '73 si impegnò come "account" per Ermenegildo Zegna. Dopo di che, un incontro con la responsabile della relazioni esterne della FIAT - Maria Rubiolo, la potente "Mariuccia" - lo portò a lavorare con lei fino alla pensione. In quel periodo trovò modo di candidarsi alla presidenza della FIDAL. Nel suo programma si leggeva: "La sport rappresenta, forse, l'ultimo baluardo delle coscienze contro un certo degrado etico e civile che sta coinvolgendo nuona parte del mondo: facciamo in modo che le nostre coscienze non subiscano delle delusioni!". Non fu ascoltato.
Mai troppo amico di Pietro Mennea - che lo ha imitato sul traguardo olimpico venti anni dopo, ma in un quadro di opposizione ben più favorevole - il suo nome si trova spesso associato a una improbabile storia di amore con la sfortunata Wilma Rudolph, altra eroina di Roma '60 incontrata al Villaggio Olimpico. Le foto dei due, mano nella mano, in quei giorni fecero il giro del mondo, in una epoca caratterizzata dall'intraprendenza e dall'invadenza fantasiosa dei "paparazzi" romani. Ma si trattò solo di una storia non andata oltre un amichevole scambio di tute. Sul piano sentimentale, Berruti si è sposato solo alla soglia dei sessant'anni, nel 1998, quando portò all'altare la signora Giulia, più borghesamente "incontrata a casa di amici". Come concludere? Incombenza lasciata allo stesso campione olimpico che, richiesto di farlo, cita volentieri una frase di Alberto Bolaffi: "Il successo non ti appartiene".
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