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Italian Graffiti / Una targa del CONI in onore del "fascista" Finzi

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Giovedì 19 Novembre 2020

finzi

La storia non pare essere la materia più coltivata ai nostri giorni: più rassicurante andare a memoria, semmai adattandola quando non riscrivendola. Se vogliamo, è un po’ come vuotare un cassetto dalle foto dei nonni per far spazio all’ultimo modello di Ipad.

Gianfranco Colasante


Leggo che Giovanni Malagò inaugurerà a breve una targa in memoria di Gino Bartali, “in ricordo degli sportivi ebrei perseguitati dalle leggi razziali, tra i quali anche l’ex presidente del CONI, Aldo Finzi”. Non mi stupisco. Ignoro quali e quanti siano i consulenti storici di Malagò, mi dicono che al Foro Italico e dintorni non ne manchino, ma questo sul quale lo stanno indirizzando è un sentiero un po’ scivoloso. Non parlo, ovvio, del Ginettaccio “giusto tra le nazioni”, quanto di Finzi: uno dei quattro presidenti del CONI rimasti uccisi durante la guerra civile il cui nome, presumo, sarà del tutto ignoto all’intero CN che ha avallato l’iniziativa. Tento di spiegarmi.

Cominciamo col dire che è vero, Aldo Finzi, già sottosegretario alla presidenza del consiglio, presiedette il CONI – una carica che non aveva cercata, ma che gli venne ossequiosamente offerta dai vecchi dirigenti “liberali”, allo sbando e senza un soldo – per poco più di un anno, dal maggio 1923 a metà giugno del 1924, quando – pesantemente coinvolto nel delitto Matteotti – fu costretto a farsi da parte.

Si può aggiungere che – forse in nome per la passione per i motori, gli aerei, le motociclette e la potente Alfa scoperta con la quale scollinava rombando tra gli Appennini e Roma, accettò l’incarico votato all’unanimità – si badi bene, lui assente –, senza schernirsi e offrendo in cambio al CONI una sede in alcune stanze di Palazzo Chigi e avviando un primo finanziamento con una colletta tra i gerarchi sulla base fissa di 1000 lire: Mussolini fu il primo ad aderire, mettendone sul piatto duemila.

Nato a Legnago nel 1892, sesto dei sette figli di un ricco possidente terriero che lo ebbe intorno ai settant’anni, benché formalmente cresciuto in una famiglia d’ascendenza ebraica, Finzi fu educato dal padre – come i suoi fratelli e sorelle – all’insegna del “libero pensiero” e al rifiuto della confessione avita e non professò mai e in alcuna forma l’ebraismo. Che ignorò negli anni del successo e dal quale si tenne sempre alla larga.

Tanto è vero che nel febbraio del 1923 aveva sposato in Campidoglio una ricca ragazza di Palestrina, Maria Luisa Clementi detta Mimy, soprano per diletto e nipote dell’anziano e potente cardinale Vincenzo Vannutelli, esponente principe di quella parte della Curia romana che propugnava stretti rapporti tra Chiesa e Fascismo e che nell’occasione tenne l’orazione nuziale.

Fu una cerimonia sfarzosa – come si può ancora verificare su L’Illustrazione Italiana – celebrata davanti a Mussolini e a metà governo, padrini delle nozze Gabriele D’Annunzio e, per la sposa, Guglielmo Marconi, con l’orchestra da camera diretta da Ottorino Respighi. Ma queste ed altre note sono facilmente consultabili in rete, semmai per approfondire i contorni del “Finzi fascista” rimanderei ai volumi di Renzo De Felice (in particolare a “La conquista del potere”, Einaudi 1966).

Nella vita di Finzi, morto a 52 anni alle Fosse Ardeatine, si possono distinguere tre periodi: il primo, durante la grande guerra quando, da pilota, fu accanto a D’Annunzio nel volo su Vienna, riportando tre medaglie e due croci di guerra; il secondo, da squadrista della prima ora, un “fegataccio” come si diceva, strettissimo collaboratore di Mussolini col quale viaggiò nello stesso compartimento diretto a Roma a coronamento della Marcia del 28 ottobre 1922 e dal quale ottenne, tre giorni dopo, il sottosegretariato che utilizzò con una certa disinvoltura; il terzo, opaco e marginale che gli costò nel 1942 l’espulsione dal PNF e il confino alle Isole Tremiti per aver preconizzato avanti a testimoni il crollo del fascismo e, successivamente, la cattura per delazione da parte della gendarmeria tedesca fino al colpo alla nuca quando, casualmente, da Regina Coeli – come “prigioniero politico” appartenente al Partito Democratico del Lavoro e non in quanto ebreo – finì su un camion diretto alle Ardeatine.

Ma un dato emerge con certezza: Aldo Finzi fu essenzialmente un intransigente esponente di primo piano del fascismo durante gli anni che portarono alla presa del potere da parte di Mussolini (e mentre presiedeva il CONI). Condividendone scelte e responsabilità, dagli oscuri affari condotti con le compagnie americane del petrolio, al controllo e al finanziamento dei giornali, alla “dissuasione” violenta degli avversari politici, fino ai giorni cupi del delitto Matteotti che cancellò la residua parvenza di democrazia in Italia e impresse la svolta autoritaria verso la dittatura. E che lo ripiombarono nell’anonimato.

Parlare di Finzi come “perseguitato dalle leggi razziali”, più che una forzatura dialettica è un falso storico, considerato che – come detto – rimase iscritto al PNF fino al novembre del 1942, vale a dire quattro anni dopo che Achille Starace aveva fatto approvare dal consiglio del CONI l’atto di espulsione degli sportivi di religione ebraica da tutte le società e dalle federazioni.

A quel tempo, Finzi risultava professante la religione cattolica: e come tale viene indicato nel fascicolo personale conservato presso il museo delle Fosse Ardeatine, fascicolo che contiene anche il verbale del riconoscimento dei resti, eseguito dal figlio diciottenne Vieri, e firmato dalla sorella maggiore Olga. Cattolico, quindi, e non ebreo. Semmai quel colpo di machine pistol mise fine ad una esistenza contraddittoria che lo aveva visto al centro di eventi più grandi di lui e vittima di un delitto commesso da altri. Nulla di più.

Certo, come è d’uso nel nostro paese, la storia si può anche interpretare, ma proprio riscriverla sembra una scelta eccessiva. Se poi si volessero veramente ricordare gli sportivi emarginati e finiti nei campi di sterminio, non ne mancano: rammento a me stesso che un capitolo del mio libro su Zauli – a suo tempo presentato al CONI presente lo stesso Malagò – riporta diverse storie esemplari e tragiche, da quella di Leone Efrati al bi-campione olimpico Paolo Salvi, all’allenatore di calcio Raffaele Jaffe. Purtroppo, sono solo una parte.

 

 

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