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Kenya & Doping / Un nuovo tipo di "colonizzazione"?

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Sabato 7 Febbraio 2015


LUCIANO BARRA


Nel recente articolo sulle candidature di Coe e Bubka alla presidenza della IAAF, ho indicato il problema del Doping come uno dei più gravi che il futuro Presidente dovrà risolvere. In particolare ho scritto (e scusate l’autocitazione, ma assolutamente necessaria): Il vero problema è il ‘modello di atletica’ che negli ultimi venti anni si è perseguito: record e dollari a tutti i costi. Fino a quando non si cambia questo modello il problema del doping non si risolverà. Così come fino a quando non verranno introdotte norme chiare per investigare e squalificare tutti coloro che sono intorno agli atleti (medici, tecnici, manager, e quanto altro) il bubbone non si estirperà. Chi crede che siano gli atleti a doparsi solo per il risultato, non ha capito nulla.” Alcuni fatti accaduti in Kenya in questi giorni mi autorizzano ad entrare in maniera più precisa nel problema e vedere di scoperchiare alcune pentole. Anche quanto accaduto in Russia è ormai arcinoto, non tanto per la quantità di casi doping, ma soprattutto per quanto accaduto intorno a una campionessa della Maratona con accuse corruzione a dirigenti nazionali ed internazionali. Per mia salvaguardia, come dice Maurizio Crozza, “io non ci credo” (!)

Cosa è accaduto in Kenya? Sono venuti alla luce alcuni importanti casi di doping. Ma ai margine della squalifica di Rita Jeptoo (tre vittorie nella Maratona di Boston e in tante altre Maratone internazionali), due campioni olimpici come Wilfried Bangui (oro a Pechino 2008 negli 800 metri) e John Ngugi (oro a Seoul 1988 nei 5000 e 5 volte campione del mondo nel Cross) hanno accusato la Federazione Keniana di cospirare al fine di coprire i veri responsabili e invece punire la Jeptoo (vedi Kenyan Standard nell’articolo di Omulo Okoth intitolato Grand Conspiracy).

DOMANDE SENZA RISPOSTE

Fra le cose dette da Bungei e Ngugi nella conferenza stampa di lunedì 2 febbraio vi sono alcune interessanti domande: “Chi è stato coinvolto in questo caso di doping è stato arrestato?” o ancora: “Se Jeptoo è colpevole, come ci è stato detto, ha lei agito da sola?”. E poi: “Lei è stata interrogata con il marito, il manager e l’allenatore. Sono anche loro colpevoli , o no?”. E infine: “Annunciare la squalifica è ok, ma ora abbiamo bisogno di tutte le informazioni su questo e sugli altri casi”. E poi le domande più serie: “Se Jeptoo è stata trovata positiva, ci deve essere qualcuno dietro di lei. Perché egli o ella non sono in carcere? Noi vogliamo che il doping diventi un crimine penale e che coloro che ne sono responsabili ne paghino le conseguenze”. E per ultimo la domanda più rilevatrice: “Questa è una sostanza dopante da iniettare ed essa non è prodotta in Kenya. Come è arrivata nel nostro Paese?”

La situazione si è fatta particolarmente grave per la Federazione Keniana contro la quale la Professional Athletes Association del Kenya (PAAK) ha da tempo lanciato pesanti accuse, chiedendo anche la testa del presidente (dal 1992) Isahia Kiplagat, membro del Consiglio IAAF dal 1999. Merita, a questo punto, fare un passo indietro sul Kenya, Paese di 40 milioni di abitanti che ha raggiunto la sua indipendenza nel 1963, grazie alla storica “rivolta mau-mau” , dopo un lungo dominio britannico. Nell’atletica aveva avuto dei buoni risultati proprio a cavallo di quegli anni, sia a Giochi di Roma 1960 che a quelli di Tokyo 1964, senza però vincere delle medaglie. L’esplosione avvenne ai Giochi di Città del Messico, nel 1968, con le prestigiose medaglie di Kip Keino, Naftali Temu e Amos Biwott. Allora si disse grazie all’altura della capitale messicana, affermazione smentita dai risultati conseguiti dagli atleti keniani fino ai tempi nostri.

Il loro dominio nelle gare di fondo è diventato, in questi ultimi decenni, impressionante. Solo alcuni numeri: nelle graduatorie di Maratona di fine stagione 2014, il Kenya ha 67 atleti sotto le 2 ore e 10 secondi con 85 atleti nei primi 150. Nei 10.000 dello scorso anno può vantare 28 atleti nei primi 50. Tralascio di proposito i nomi dei loro migliori atleti perché sono arcinoti, anche se spesso confusi, ma soprattutto perché questo non proprio è il punto che voglio toccare.

UN PROGRESSO ENORME

Perché questo enorme progresso? Per due fondamentali motivi: il primo, abbastanza noto, è dovuto ai grandi investimenti che la IAAF, già dai tempi di Nebiolo, ha fatto nel terzo mondo (in particolare Africa e paesi dei Caraibi). Parliamo dei Programmi di Sviluppo che sono costati alla IAAF oltre venti milioni di dollari in quattro anni. Con tale finanziamenti la IAAF ha sviluppato il più facile dei programmi: garantire a quei paesi di partecipare, a ranghi completi, a tutti i diversi Campionati della IAAF (Assoluti, Junior, Allievi, su strada, nel cross, ecc.). A scuola, una volta si insegnavano le aste, ora si scrivono direttamente le parole. Così, in atletica, una volta si dava preponderanza all’allenamento, ora il miglior sistema per progredire, soprattutto per atleti di questi paesi, è gareggiare. Gareggiare in particolare all’estero crea motivazioni, crea emulazione e ha creato molti guadagni.

Il mondo delle corse su strada è diventato per loro una “Mecca d’oro” , tanto è vero che molti dei loro migliori atleti non gareggiano nei Mondiali o alle Olimpiadi, gare che si volgono d’estate e dove si partecipa solo grazie a selezioni nazionali difficili, ma gareggiano nelle grandi Maratone Internazionali, dove i premi vanno fino a mezzo milione di dollari (quanto la Jeptoo avrebbe guadagnato con l’ultima vittoria di Chicago) e, a conferma di ciò, la Jeptoo ha preso parte solo ai Campionati del Mondo del 2005, poi ha preferito i lauti guadagni non certo le medaglie, chissà da chi consigliata.

Ed ecco il secondo motivo. Per arrivare a tanto non era sufficiente avere del talento, bisognava organizzarsi. Non certo grazie alle loro Federazioni, incapaci di farlo, ma grazie ai nuovi colonizzatori: i così detti Athletics Representative, vale a dire i Manager. Il Kenya, più dell’Etiopia o della Giamaica, sono stati la loro fortuna. La federazione keniana ha emesso autorizzazioni per 32 Manager. Il numero più alto dopo gli Stati Uniti (69), con la differenza che l’atletica americana si sviluppa su un territorio 16 volte più grande, con una popolazione otto volte superiore e con un’atletica che spazia in tutte le discipline dell’atletica, mentre in Kenia si parla solo di mezzofondo/fondo e corse su strada.

MANAGER E NON SOLO

Sono loro che gestiscono quegli atleti. Grazie a una semplice lettera di autorizzazione emessa all’inizio dell’anno da una compiacente federazione (con le conseguenti chiacchiere del caso), li iscrivono direttamente alle gare, ne trattano i compensi pre-gara e i relativi premi. Ovviamente, i manager percepiscono le loro percentuali e quindi ecco che nasce una “tratta-dei-neri” incredibile. Basta leggere i risultati delle gare su strada in Italia e all’estero per verificare cosa accade. Ci sono sempre tre keniani (o spesso tre etiopi) in ogni gara, mai più di tre. Il necessario per accaparrarsi i premi. Ora in Italia, causa la crisi economica e l’intelligenza di qualche organizzatore, la partecipazione di questi professionisti della strada si è limitata da sola. Ma sfido chiunque a non riconoscere in ciò il crollo verticale dei nostri risultati nelle gare di fondo e nelle maratone, rispetto al passato.

Che i manager siano stati importanti nello sviluppo dell’atletica di questi ultimi 20 anni è cosa certa. Se Mennea avesse avuto un Manager avrebbe “monetizzato” di più e, soprattutto, non avrebbe smesso due/tre volte dietro le lusinghe di una illusoria e fallimentare concessionaria FIAT. Ma la maniera come loro (i Manager) hanno preso il potere nell’attività dell’atletica Internazionale è esagerato e spesso uno scandalo. Quello che è più grave è come la IAAF abbia permesso tutto ciò. Esiste un Regolamento per l’attività di questi Manager, che contiene anche norme sul doping, a cui ho collaborato attivamente per la sua compilazione all’inizio degli anni Novanta, ma esso è ignorato e mai è stata presa una decisione per proteggere atleti, federazioni e anche gli stessi Manager. Su ciò ho un’aperta polemica con l’amico di una vita, Sandro Giovannelli, che sostiene che essi si sono sostituiti positivamente alla mancanza di molte federazioni. In parte ha ragione, ma quella sostituzione è talmente completa che un giorno essi potrebbero fare a meno delle stesse, cosa che nell’atletica non è possibile, non essendo, come il Tennis o il Golf, gestite da Associazioni di Atleti Professionisti. Non c’è bisogno che ne spieghi il perché.

Tralascio al momento altri argomenti sul rispetto dei regolamenti, sul pagamento dei premi e sul versamento delle ritenute d’acconto in Italia od all’Estero da parte di molti di questi “negrieri” della corsa su strada. Il giorno che qualcuno ci metterà le mani, ne vedremo delle belle. Il tema qui è il Doping. E tornando alla domanda che Bungei e Ngugi hanno fatto, su chi ha importato, o somministrato, ad atleti keniani le sostanze dopanti da iniettare, visto che si tratta di prodotti che in Kenya non esistono? Lo vedete voi un atleta keniano andare in farmacia per comperarli?

Per avvalorare questa tesi, merita raccontare un aneddoto storico. Riguarda una famoso dirigente keniano, Charles Mukora. Alle Olimpiadi di Città del Messico figurava come l’allenatore capo della squadra keniana che vinse tante medaglie a quei Giochi. Credo che fosse l’ispiratore del passaggio della siepe (non della riviera come dicono i nostri telecronisti, gli altri sono ostacoli) senza poggiare il piede. Per questo era famoso il vincitore Biwott. Poi Mukora divenne presidente della federazione keniana, membro del Consiglio della IAAF nel 1976, presidente del Comitato Olimpico Keniano e quindi Membro del CIO. Incappò nello scandalo di Salt Lake City ed insieme ad altri Membri del CIO fu costretto alle dimissioni. Tutti pesci piccoli e con colpe lievi: i veri squali si salvarono.

Tornando a Mukora, nel 1972 lui era a Roma per una riunione con Nebiolo e fu invitato ad assistere all’incontro d’atletica che si svolgeva a Firenze fra Italia e Cuba. Da Roma, con Augusto Frasca, lo portammo in macchina a Firenze. Quando entrammo a Firenze volle fermarsi in una farmacia perché era raffreddato con mal di gola. Lì, grazie alla mia traduzione, gli dettero delle pasticche Vicks per la gola e delle supposte, credo di bismucetina. Ripartimmo per l’albergo e vidi ad un certo punto Augusto Frasca sbiancare, cosa facile da capire visto il suo colorito roseo. Mi spaventai e gli chiesi cosa avesse. Allora lui mi prese da parte e mi disse “Ho visto dallo specchietto che Mukora inghiottiva la supposta, la masticava letteralmente, con bocca e labbra impasticciate!” .

Vi immaginate ora un atleta keniano che compra le medicine e si dopa da solo?

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