- reset +

Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
“Il più colto uomo di sport”




Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





I sentieri di Cimbricus / Perche' amare gli Springboks

Mercoledì 1° Novembre 2023

 

spring


“Il Sudafrica è un laboratorio di sentimenti esasperati, di oppressione, di diritti negati, di lotta per conquistarli e spesso tutto questo portava addosso quel nome, Springboks, una gazzella che pascola e salta nel veld, la prateria dell’altopiano”.

Giorgio Cimbrico

Perchè la confraternita ovale, anche la nostra, ama gli Springboks? Perché gli All Blacks sono perfetti, a tratti invincibili, innovativi. Gli Springboks no. Hanno afferrato l’unico dono fatto dagli inglesi – il rugby, certo – e hanno capito che era perfetto per loro. Era il caso di cambiarlo? No. Gli Springboks sono imperfetti come il paese che hanno rappresentato e rappresentano.

Per capire qualcosa del Sudafrica la bibliografia parte dal racconto “Una guerra per soli sahib” di Rudyard Kipling e passa attraverso la limpida prosa di Nadine Gordimer e la ricerca di quello che sta in fondo alla nostra coscienza di John Maxwell Coetzee. Sono buoni consigli: tutti e tre hanno avuto il Nobel.

Sono il prodotto di un caleidoscopio di storie. E gli aggettivi belle o brutte sono un orpello, sono inutili. Storie e basta, prodotte dal fluire del tempo, degli avvenimenti. Sono stati il simbolo della più brutale intolleranza bianca in quelli che, per prendere a prestito il titolo di un grance scrittore tedesco, Gunther Grass, sono stati anni di cani. Erano il mosaico di boeri di radice olandese che inventarono una lingua, l’afrikaans, di francesi protestanti (gli ugonotti), di tedeschi, arrivati più tardi. Scorrere quelle squadre bellicose significa imbattersi anche in qualche nome britannico.

Un’Europa intera si era riversata laggiù: chi per avere libertà di culto, chi per conquistare una nuova Terra Promessa, chi per arricchirsi perché già prima che il XIX secolo spirasse qualcuno aveva scoperto che quello era il paese più ricco del mondo: la vena d‘oro del Rand, le miniere di Kimberley.

La guerra anglo-boera, l’assedio di Mafeking che fece prosperare i padroni delle rotative di Fleet Street, la guerriglia che continuò anche dopo l’armistizio, la nascita dei primi campi di concentramento, invenzione dei britannici per convincere i cavalieri armati di Mauser a smetterla, il fossato dell’odio, più profondo del fiume Modder, che finisce per generare l’idea di popolo eletto, di supremazia su chi in quella terra era nato.

Il Sudafrica è un laboratorio di sentimenti esasperati, di oppressione, di diritti negati, di lotta per conquistarli e spesso tutto questo portava addosso quel nome, Springboks, una gazzella che pascola e salta nel veld, la prateria dell’altopiano, battuta in giugno e luglio da un vento freddo. Peccato che oggi sia diventata piccola piccola, confinata su una manica. La protea ha avuto la meglio e anche il 46664 del codice carcerario del Madiba è sparito. Ma il nome è rimasto: Boks.

I giocatori italiani che mezzo secolo fa andarono in un’estate da ricordare, tornarono con racconti favolosi, come Marco Polo quando rientrò dal Cathaio. Era una rustica e accogliente società bianca. I neri erano sullo sfondo, spesso invisibili. Il paese era bandito dal mondo, dallo sport. Nel ’76 colpi più il boicottaggio olimpico dei paesi africani, per i rapporti rugbystici che continuavano a correre tra Sudafrica e Nuova Zelanda, che per la strage degli innocenti a Soweto.

Il Sudafrica era un paese in eterna guerra. Temeva, come racconta Coetzee in “Aspettando i barbari” che potessero calare dall’Angola, dal Mozambico, dallo Zimbabwe, appena nato dal vecchio sogno colonialista di Cecil Rhodes.

Quel che è riuscito a fare Mandela lo sanno tutti, anche per merito di Clint Eastwood, di Morgan Freeman, di Matt Damon. Evitare la vendetta in nome della riconciliazione, rovesciare il significato di un simbolo e farlo amare, inventarsi un inno arcobaleno con una strofa tratta da Die Stem, marziale e autoritario: il capolavoro di un avvocato galeotto, proprio come il suo collega (anche lui avvocato, anche lui galeotto) Gandhi, che proprio in Sudafrica, a Durban, iniziò la sua missione.

E così, riannodando i fili, non resta che giungere a una conclusine e alla spiegazione del motivo per cui gli Springboks sono nel cuore di chi pensa ovale: perché sono il prodotto complesso di una storia terribilmente difficile che anche i più solerti cancellatori così in auge oggi, non riusciranno a spazzar via: bantu e boeri, francesi e xhosa, tedeschi e zulu. E persino uno strano tipo che come soprannome ha quello di un animale estinto, mezzo asino, mezzo zebra: Kwagga. Hail the Springboks, esclamava un eroe di Hugo Pratt, il tenente Koinsky. Hail the Champions.

 

 

Cerca