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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
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Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





Duribanchi / Allenatori, tutta una questione di quattrini?

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Martedì 19 Settembre 2023

 

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L’emigrazione dorata di Mancini ripropone il tema. Tra i ricconi dello sport, quelli che allenano le squadre di calcio, godono di grandi privilegi, trasformando il mestiere di allenatore in qualche cosa di molto speciale. Di unico.

Andrea Bosco

“E' più facile che un cammello entri per la cruna di un ago, che un ricco nel regno di Dio“. Vangelo di Matteo 19, 24. La citazione è notissima. E a parte il probabile errore di trasposizione dal greco (kamelòs significa “cammello“, ma kamilòs vuole dire “grossa fune da nave“) resta il senso del passo evangelico. Secondo Matteo, il Padre non ama i ricchi. Non sono un saggista ma quei libri li ho letti.

Alle Nozze di Cana, Gesù va a casa di un benestante visto che le otri per la “purificazione“ risulta (dal Vangelo di Giovanni) fossero almeno sei, ciascuna delle quali contenente, dalle due alle tre giare. Giare che Gesù fa riempire, compiendo (come in un rito dionisiaco) il suo primo miracolo, trasformando l'acqua in vino, visto che a causa della moltitudine degli ospiti, il padrone di casa si era trovato a corto di Sassicaia. E in un'epoca dove la sopravvivenza alimentare era il problema principale per le classi meno abbienti (e lo sarebbe stato per molti secoli, fino a riesplodere drammaticamente negli ultimi decenni) avere così tanti ospiti in casa, sia pure per un evento non usuale (le nozze), era indice di grande benessere.

Il cardinale Ravasi (con il quale ho discusso quando era prefetto dell'Ambrosiana e che stimo per l'immensa cultura) mi bacchetterebbe. E poi mi convincerebbe di avere male interpretato. Una volta mi avventurai con lui a discutere del Libro di Giobbe e fu un disastro. Nel senso che dopo un quarto d'ora, anche quel Giobbe che quasi “bestemmia Dio“, spiegato da Ravasi, mi apparve sotto una diversa luce.


Ma, testi sacri a parte, la questione resta sempre quella: l'uomo non si accontenta e – quasi sempre – vuole di più. E' nella sua natura cercare di migliorare la propria condizione sociale. Cerco di non sfinire i lettori di SportOlimpico, scimmiottando filosofi da strapazzo che ammorbano giornali e televisioni. Il problema non è quello di arricchirsi, essendo – nel rispetto delle leggi – la cosa, lecita. Il problema è speculare, grassando sul prossimo. Il problema è che l'intera ricchezza del mondo è detenuta da una esigua minoranza plurimiliardaria a scapito di una immensa umanità, priva a volte, anche del minimo necessario per la sopravvivenza. Valutando la pietas verso i poveri e la povertà come una opzione “non“ prioritaria.

Tra i “ricchi“ che circolano nel mondo dello sport, quelli che allenano le squadre di calcio, godono di situazioni economiche di assoluto privilegio. Agenti, avvocati, giornali, mediatori, televisioni, hanno trasformato il mestiere di allenatore in qualche cosa speciale. A volte con risvolti con sfumature messianiche. I casi di Sacchi, Guardiola, Sarri sono abbastanza indicativi di come il coach sia diventato “altro“ rispetto al passato. Come ormai accade in quasi tutte le discipline (sia pure con ingaggi e retribuzioni assolutamente diverse rispetto al calcio). E come era accaduto nel mondo del teatro. Così, come un tempo in palcoscenico erano gli attori a dettare consensi e mode, dalla stagione di Strehler al Piccolo Teatro di Milano, le cose sono radicalmente cambiate.

Il regista è diventato il “dominus“ della rappresentazione. Al regista si concede di portare in scena Pantalone con una tuta firmata e snikers e magari un Arpagone, ringiovanito, in jeans e polo. Quello che ormai accade nel segmento della lirica ha risvolti patologici: la musica oscurata da registi malati di protagonismo. Che portano in scena tra i gorgheggi del tenore e della soprano, automobili, motociclette, ogni tipo di “modernità“ che attualizzi uno spettacolo nato per le note e le voci. Catapultare Mozart e il suo “Don Giovanni“ all'interno di una contemporanea festa vip, dove abbondano tatuaggi, shortini e shortoni, “piste“ di “neve“ e ragazze avvinghiate al palo della lap dance, buzzurri con ferramenta varia al naso e ai lobi, è una operazione che solo narcisi in cerca di visibilità possono realizzare.

“Coraggioso, innovativo spettacolo“ titolano i media che si abbeverano ai tradimenti farlocchi del gettonatissimo “Temptation Island“.

Allo stesso modo nel calcio, una volta, i protagonisti erano i calciatori. Qualcuno rammenta chi fosse l'allenatore della Juventus di Boniperti, Charles, Sivori? Si chiamava Brocic: per la cronaca durò poco. Visto che Sivori non lo sopportava. E' dagli anni Sessanta con l'arrivo del “mago“ Helenio Herrera santone dell'Inter di Angelo Moratti che l'allenatore assume un ruolo mediatico, fino a quel momento impensabile. Ecco allora il paròn Nereo Rocco, che era probabilmente il più bravo di tutti, fare meraviglie con il Milan dopo averle fatte con la “provinciale“ Padova. Ma che godeva di cattiva stampa: da parte della nouvelle vague giornalistica che lo accusava di essere un “catenacciaro“.

Ecco l'esteta Fulvio Bernardini che fece vedere con il suo Bologna di Haller e Bulgarelli un calcio poetico. Ecco il “filosofo“ Manlio Scopigno che non portava i giocatori in ritiro, che gli permetteva di fare tardi la notte, che con il Cagliari vinse uno scudetto. Anche se vincerlo avendo in squadra uno come Gigi Riva era decisamente meno complicato che vincerlo come fece Bagnoli a Verona avendo in squadra Nanu Galderisi. Altri allenatori seguirono. I “tremendisti” del Torino, Giagnoni (l'uomo con il colbacco) e Radice, un mediano che da calciatore “non faceva prigionieri“. Ci fu Mondino Fabbri che fece incantesimi con il suo Mantova ma che da CT della Nazionale con i suoi “abatini“ subì in Inghilterra, al Mondiale, lo sfregio di un odontotecnico nord-coreano.

In ogni caso gli allenatori italiani sono sempre stati stimati (e profumatamente retribuiti) anche fuori dai confini italici per la capacità organizzativa, per la gestione, per il pragmatismo nell'affrontare le gare. Gli italiani controllavano l'alimentazione, proibivano le bevute al pub dopo le gare, pretendevano sedute in palestra e non solo allenamento con la palla. E soprattutto pretendevano dai club un approccio “professionistico“ là dove, sovente, anche i club più blasonati lasciavano principalmente all'estro dei giocatori la gestione delle partite.

Molti allenatori italiani sono stati attratti da una esperienza (e dai relativi quattrini) all'estero. Senza violentare il tempo, ne ho selezionato alcuni.

Giovanni Trapattoni l'uomo che andava in panchina con la boccetta di acqua santa, eccellente ex mediano del Milan (riusci in amichevole ad annullare Pelé che a dire il vero infortunato giocò per onorare l'ingaggio offerto alla Nazionale brasiliana), aveva allenato la Juventus, poi l'Inter, poi ancora la Juve prima di finire al Bayern di Monaco. Andata e ritorno in Baviera con l'intervallo di Cagliari, poi Fiorentina, poi Club Italia (con l'esperienza traumatica di subire al Mondiale le mascalzonate di tale Moreno, arbitro corrotto), poi Benfica, Stoccarda, Salisburgo, Irlanda. Simpatico, casereccio, furbo come sanno essere i lombardi di Cusano Milanino, passò alle cronache internazionali per una bollente conferenza stampa nella quale in Baviera si accaniva contro un suo giocatore, tale Strunz, che a causa del cognome fu oggetto in Italia di lazzi e pernacchie. Ma il Trap è stato un grande, capace di vincere ovunque, inserito dal Times tra i migliori 50 allenatori della storia del calcio e successivamente da ESPN tra i migliori venti ogni tempo.

Grandissimo anche Marcello Lippi, protagonista sulla panchina del Napoli, poi della Juventus, deludente su quella dell'Inter (in una stagione nella quale un presidente tifoso gli ammollava i Vampeta), poi ancora Juventus, poi CT dell'Italia, prima di volare in Cina allo Guangzhou e successivamente alla Nazionale del paese della Grande Muraglia. Vincitore di tutto, ma proprio di tutto con la Juventus in Italia, in Europa e nel mondo, conquistò nel 2006 a Berlino l'ex coppa Rimet dopo essere stato pesantemente osteggiato (era la stagione di Calciopoli) dall'allora commissario straordinario Guido Rossi, nominato dal governo Prodi, che avrebbe voluto negare a Lippi e ai giocatori coinvolti nello scandalo, la trasferta mondiale. La squadra vinse il titolo. Cannavaro vinse il Pallone d'Oro che avrebbe meritato Gigi Buffon. Al ritorno Guido Rossi, salì sul torpedone dei vincitori. Gigi Riva, che faceva parte dello staff della Nazionale, in precedenza ne era sceso.

Grandissimo anche Antonio Conte, che riportò la Juventus al titolo, che ne vinse tre di fila, che se ne andò dopo aver accusato la sua proprietà di non spendere per consentirgli di mangiare “in un ristorante da 100 euro“ come facevano i grandi club europei. Che fece ottime cose con la Nazionale, chiamato dal compianto Tavecchio. Che ne fece al Chelsea che in Premier non vinceva da tempo. Salentino dal sangue caldo, a Londra resta due stagioni prima di approdare all'Inter che riporta allo scudetto. Nuova avventura britannica al Tottenham dove non ottiene i risultati sperati. Salvo uno stipendio a due cifre tra i più importanti della Premier. Attualmente disoccupato.

Carlo Ancelotti già centrocampista del Milan degli “immortali“. Parma, Juventus, Milan, Chelsea, Paris Saint Germain, Real Madrid, Bayern di Monaco, Napoli, Everton. Ancora Real Madrid. Ha vinto ovunque, specie all'estero, specie al Real Madrid dove vincere è complicatissimo per il peso della camiseta blanca. Sfortunato a Torino, incompreso a Napoli, ma eccellente a Milano. Re Carlo guadagna da sovrano ma è considerato il miglior gestore di giocatori del mondo. Nessuno ha la sua flemma in panchina. Una calma che ricorda quella di sir Alex Fergusson.

Un altro italiano capace di vincere con il Real Madrid è stato Fabio Capello: Roma, Juventus, Milan in Italia. Real Madrid (in due successive stagioni) nazionale inglese, nazionale russa, Jiangsu Suning in Cina. Un duro, più simile a Conte che ad Ancelotti, ma capace di spremere sangue (calcisticamente) dalle rape. Ingaggi sempre al top.

Cosa non accaduta a Claudio Ranieri. Che certamente il calcio ha reso benestante, senza smodatamente arricchirlo. Allenatore capace di ottenere l'incredibile: vincere la Premier con il poco blasonato Leicester City. Giramondo in Italia, Cagliari, Fiorentina, Parma, Juventus, Roma, Sampdoria, oggi ancora Cagliari. All'estero: Valencia, Atletico Madrid, Chelsea, Monaco, Nazionale greca, Nantes, Fulham, Watford, Claudio Ranieri è sempre stato apprezzato per la capacità di umanizzare le squadre che ha allenato. Pensando prima agli uomini che al risultato. Visione assai poco italiana ma che gli fatto ottenere grandi soddisfazioni, oltre che la stima dell'intero ambiente.

Ce ne sono altri, ovviamente, da De Zerbi a Gattuso, al Fabio Grosso, l'uomo che segnò il rigore decisivo contro la Francia a Berlino e che oggi siede sulla panchina dell'Olimpique Lione. Mi resta da vagliare Arrigo Sacchi, il cui gioco fatto praticare al Parma, sedusse Silvio Berlusconi che lo volle al Milan, Sacchi è stato un innovatore. Il calcio moderno è cresciuto con il sacchismo, con la zona di Sacchi, con le diagonali di Sacchi. Nel bene e nel male: Sacchi cambiò il modo di pensare al calcio, ma fece anche crescere una generazione di velleitari imitatori. Sfruttando le idee che al Milan aveva portato prima di lui il “barone“ Liedholm, Sacchi perfezionò la fase difensiva. Alzando il baricentro del suo Milan con un pressing a centrocampo mutuato dal calcio olandese, che a sua volta lo aveva mutuato dal basket.

A Sacchi repelle chi afferma che il vero calcio nasce in strada e che Maradona e Pelè i più grandi di sempre, tali sono diventati senza adeguarsi agli schemi di un allenatore. Sacchi aveva le sue idee. Era un uomo talmente “ossessionato“ dalla professione da perdere il senso della misura. Come quando andò da Berlusconi (respinto con perdite) a pretendere la cessione di Van Basten. Dal 2001 non ha più allenato. Il calcio con le sue tensioni lo stava distruggendo. Benché venga riconosciuto come un innovatore non ha guadagnato quanto altri suoi colleghi. All'estero è andato una sola volta all'Atletico Madrid: sette mesi di permanenza terminati con l'esonero e senza aver conseguito, con i colchoneros, risultati. Pare che la sua “crisi“ emotiva sia iniziata dopo la cocente delusione del mondiale perso ai rigori negli Stati Uniti contro il Brasile, con fantozziano rigore, spedito verso il cielo dall'infallibile specialista Roby Baggio. In ogni caso, un grande personaggio, Sacchi, capace di entusiasmare e di dividere: per il suo carattere e per idee prossime all'integralismo.

Pare che Sacchi sia un ammiratore del Duca di Wellington, il vincitore di Bonaparte, al quale è attribuita questa frase: “La battaglia di Waterloo fu vinta sui campi di gioco di Eton“. Ovviamente, Il Duca si guardava bene dal dire che a Waterloo vinse il fango (causa maltempo) che impantanò l'artiglieria di Napoleone. Cambiando la storia d'Europa.

Ma questo articolo non avrebbe visto la luce se Roberto Mancini – CT degli azzurri – non avesse lasciato nottetempo con una Pec alla Federazione il suo incarico per andare a guadagnare un forziere stile Paperon de Paperoni in Arabia Saudita come responsabile di quella nazionale. Grande campione da giocatore, allenatore in Italia della Lazio, della Fiorentina, dell'Inter e all'estero del Manchester City, del Galatasaray e dello Zenit San Pietroburgo, Mancini, esteta del calcio, vincente la sua parte da calciatore e da allenatore, ha sempre goduto di ottima stampa. Che gli ha perdonato anche i risultati meno esaltanti della sua carriera. L'ultimo trofeo (l'Europeo) la Nazionale l'ha vinto sotto la sua gestione. Ma sotto la sua gestione la Nazionale ha fallito (per la seconda volta consecutiva, la prima sotto la gestione Ventura) la qualificazione al Mondiale.

Mancini è sempre stato una sfinge. I cronisti hanno sempre reputato di comprenderne le mosse. Ma Mancini la verità, probabilmente non la dice neppure a se stesso. Onestamente, con una retribuzione di 70 milioni di euro in tre stagioni, nessuno se non un ipocrita potrebbe contestare la scelta di lasciare l'Italia e il relativo incarico federale. Ma nella testa del tifoso (che non è una testa normale) questa decisione resterà una macchia sul suo curriculum. La decisione di un uomo che si è piegato ai petrodollari.

Sono sincero: ditemi dove si deve firmare. Che ai petrodollari, anche per una cifra assai più modesta, rispetto a quella garantita a Mancini, mi “piego“ anche io. Non sono avido e neppure avaro: faccio quello che mi sento di fare (e che a mio parere è giusto fare) senza pubblicità. Ma essendo un peccatore, ho già messo in conto che prima di poter bussare alle “porte“ cantate da Bob Dylan, dovrò fermarmi in qualche “stazione“ intermedia. Poi, chissà : uno come Ravasi, magari, potrebbe raccomandarmi .

 

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