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I sentieri di Cimbricus / E divorarsi e' dolce in questo ovale

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Giovedì 7 Settembre 2023

 

rugby-23 


Dall’avvento del professionismo, meno di trent’anni fa, i giocatori sono lievitati (in media dieci centimetri più alti e una quindicina di chili più pesanti) e sottoposti a ritmi e impegni che un tempo il gioco non prevedeva.

Giorgio Cimbrico

Coppa del Mondo di rugby in Francia, dall’8 settembre (partita inaugurale, Francia-Nuova Zelanda), nel 200° anniversario della nascita del gioco: le circostanze sono leggendarie e l’inventore William Webb Ellis, futuro abate sepolto a Mentone, assomiglia un po’ a Peter Pan, un po’ a Balilla. Riportato in vita con un ardito esperimento simile a quelli usati in Jurassic Park, il povero William proverebbe sorpresa, sconcerto e, in breve, non capirebbe niente.

Un amico ha detto (coniato è troppo formale …) una bella frase: “Sinché c’è Scozia, c’è rugby”. Eravamo reduci dalla partita di St Etienne, luogo che negli italiani rievoca pessimi ricordi (2007, quarti di finale a portata, perduti per un calcio che fischiò fuori) e non sapevamo ancora che il faccia a faccia tra bleus con gallo e blue navy con cardo era costato (ginocchio andato) il Mondiale a Roman Ntamack, uomo chiave del 6 Nazioni e arma vincente del Tolosa in Top 14.

Altri che non cii saranno: l’ala inglese Anthony Watson, il centro azzurro Tommaso Menoncello, spalla disastrata e dissestata quando mancavano cinque minuti alla fine della partita di Dublino, e il mediano inglese Jack van Poortvliet, andato sotto i ferri. Ntamack e van Poortvliet sono giovani, Menoncello è giovanissimo: avranno i loro giorni. Cian Healy, vecchio pilone irlandese, di giorni non ne avrà più: fuori in stampelle dopo il match con Samoa. Ultimo caduto in azione, il gigantesco seconda linea francese Willemse.

In poche, devastanti stagioni, il rugby del XXI secolo procede sempre più rapidamente nel processo di auto-divoramento. Osservazioni e domande banali: è il caso di giocare, sempre più a ridosso della Coppa del Mondo, partite che sono prequel di quelle dei quarti, delle semifinali, magari della finale? E’ un modo nuovo e spietato – stile Rollerball – per facilitare il compito dei commissari tecnici: alla fin delle tenzoni ne rimarranno giusto 33 da portare, un po’ malconci, a giocare il Mondiale.

Eppure World Rugby, la nuova etichetta della federazione mondiale, un tempo International Rugby Board, non fa altro che parlare di salute – pardon, welfare – dei giocatori come missione primaria. E infatti i casi di confusione mentale, di demenza, di ritiri in età ancora verde si moltiplicano. Kronos divora i suoi figli, come in una delle “pinturas negras” di Goya alla Quinta del Sordo. Dall’avvento del professionismo, meno di trent’anni fa, dopo l’irruzione di Rupert Murdoch, i giocatori sono lievitati (in media dieci centimetri più alti e una quindicina di chili più pesanti) e sottoposti a ritmi e a impegni che un gioco così umano e disinvolto non prevedeva.

E così li chiamano Warriors, Tigers, Bulls, ma non è questione di sete di sangue. Qui c’è soltanto fame di soldi. Sennò non si spiega Springboks-All Blacks a fine agosto a Twickenham con logica tripartizione dell’incasso tra RFU, la federazione inglese, neozelandesi e sudafricani che nel frattempo hanno perso il fondamentale Am, Pollard e de Jager. Bianchi e neri affratellati nella sfiga.

E’ anche tempo di diaspore. I calciatori di gran fama vanno in Arabia (presto, c’è da scommetterci, laggiù costruiranno stadi con il clima scozzese, francese, italiano, pioggia fina, pioggia fitta, vento di tramontana o di greco), molti giocatori e allenatori di rugby stanno per spostarsi in Giappone, dove non si guadagna come in Arabia ma se ci vanno significa che le condizioni sono buone.

Formidabile l’afflusso dei giocatori delle isole del Pacifico: la nuova carne da cannone. Previsto anche un forte spostamento di truppe attraverso il Canale: dal Galles e dall’Inghilterra verso la Francia. I dissesti finanziari o l’aver fatto il passo più lungo della gamba invitano all’emigrazione.

Tutto questo vuol essere un invito a non festeggiare o a boicottare l’anniversario che pesca in un passato così profondo e in quei campi di scuola dove, secondo il duca di Wellington, si formarono gli uomini che vinsero a Waterloo. Di certo gli ufficiali, non gli uomini di truppa.

Questo non è quel rugby e, se è per questo, non è neppure il rugby di un paio di vecchi amici che se ne sono andati di recente, come Peter Dixon, internazionale inglese, o come Clive Rowlands che finì la carriera da internazionale gallese con 14 caps. Adesso uno li può raccogliere in un anno e mezzo se nel frattempo non va in frantumi.

Nel bel ricordo di Rowlands uscito sul Guardian un paio di particolari commoventi, capaci di smuovere la nostalgia: ebbe la sua prima maglia rossa con le tre piume nel febbraio del ’63, contro l’Inghilterra, e a Cardiff era così freddo che le squadre ascoltarono gli inni negli spogliatoi. Due settimane dopo, il Galles andò a Murrayfield, per affrontare la Scozia, e c’era così tanta neve che nell’intervallo scoppiò spontanea una memorabile battaglia a palle di neve. Clive quel giorno calciò tutto quello che c’era da calciare, anche il drop del 6-0 finale. Era il tempo in cui il titolo di prima pagina dell’Équipe era: Cornamuses o Bal Musette? Ecosse-France era il match decisivo.

In quei giorni in cui giocare era un piacere si divorava quel che veniva servito nel banchetto e il menù non prevedeva mai carne umana.

 

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