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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
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Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
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Duribanchi / Storie di Reyer, dalla A (Albonico) alla Z (Zorzi)

Mercoledì 30 Agosto 2023

 

misericordia

 

Il giornalismo sportivo italiano è quasi sempre distratto rispetto al passato. Rammenta i grandissimi, cancella quelli che sono stati solo “grandi“. E' un giornalismo dove il calcio ha cannibalizzato ogni altro sport. 


Andrea Bosco

Un tardo pomeriggio di tanti anni fa alla Misericordia di Venezia, la basilica sconsacrata dove la Reyer giocava davanti ad un migliaio di assatanati tifosi, circondati dagli affreschi del Sansovino (nella foto, com'è oggi). Ho appena finito il liceo. Sono stato lontano da Venezia (capita ai ragazzi presuntuosi e viziati) per alcuni anni. Un compagno dei tempi delle medie al Marco Foscarini mi convince a tesserarmi per la Dienai, piccola società dai nobili lombi gestita dai Gesuiti, dove lui gioca.

Non sono bravo, anzi. Allena Giorgio Dario con metodi innovativi: difesa flottata e zona mista. Sono in rosa ma non “entro“ mai: troppo tecnicamente modesto. In cuor mio so che ha ragione l'allenatore, a non darmi fiducia. Ma visto che nell'Istituto nel quale per anni ho studiato facevo sul parquet buone cose, ho difficoltà ad ammetterlo con me stesso. Ci alleniamo quella sera contro la Reyer dei pari età. Sono più forti e lo mettono subito in chiaro. Due di quei ragazzi finiranno in prima squadra. Uno farà una grande carriera. Dopo il primo tempo mi dice Dario: “Scaldati che ti faccio entrare: devi marcare quello là“. E mi indica un ragazzo che non tira mai dalla distanza ma che va al ferro magnificamente come un ballerino. Che vede linee di passaggio impossibili. Non so come si chiami.


Entro e provo a marcarlo. Il termine da usare per quella mia prestazione è “imbarazzante“. Mi scappa da tutte le parti. Ha le mani troppo rapide, se appeno mi azzardo a mettere il pallone per terra. Una volta riesco a correre in contropiede. Ma mi rimonta. E nonostante sia alto più o meno come me, spazzola la mia conclusione prima che tocchi il ferro. Io sono scarso, per quel livello. Ma lui è esageratamente forte. Dopo sei minuti, vengo richiamato sconsolato in panchina. Ma Giorgio Dario mi dice: “Non avvilirti, quello diventerà un gran giocatore di serie A“. Mi aveva fatto a fette Renato Albonico, punta di diamante di quella squadra giovanile, assieme a Manuel Guadagnino. Talmente bravo Renato da essere ceduto prestissimo alla Virtus Bologna fino a diventare un idolo della città. Sul parquet esibiva un basket avanti con i tempi. Rispetto a quello che a Venezia esibivano i Cedolini, i Vaccher, i Lessana, i Ferro.

E' morto Renato Albonico a 76 anni in quella Bologna che non aveva più lasciato, eccellente commentatore televisivo dopo essersi ritirato dal basket, uomo entrato in punta di piedi nella storia della Virtus ma amato dalla torcida come pochi altri. Il giornalismo sportivo italiano è quasi sempre distratto rispetto al passato. Rammenta i grandissimi (e a volte neppure loro), cancella quelli che sono stati solo “grandi“. E' un giornalismo dove il calcio ha cannibalizzato ogni altro sport. E dove “domani“ anche un Gimbo Tamberi sarà, nonostante le sue medaglie e i suoi trofei, un ricordo. Non dico sbiadito, ma non sfolgorante come gli eroi che vinsero il Mondiale in Spagna davanti al presidente Sandro Pertini.

Per come in pochi lo hanno ricordato, pensieri stropicciati (a parte l'Orso sul Giornale e pochi altri) sono stati anche quelli per Tonino Zorzi, grande giocatore, grandissimo allenatore. Uno da Hall of Fame italiana. Eletto miglior giocatore della storia della pallacanestro varesina. Aveva un brutto carattere e diceva ruvidamente quello che pensava. La gente di Gorizia è così: schietta. Lo avevano accostato a Bobby Knight, il leggendario coach di Indiana (che prendeva a male parole anche Isaiah Lord Thomas III che sarebbe diventato la mente dei “cattivi ragazzi“ di Detroit), il mago degli “Hoosiers“ che tirava, quando si incazzava, sedie sul parquet durante le gare. Una volta, nel calcio, da allenatore lo fece anche Emiliano Mondonico, il “baffo“ che estasiava i tifosi del Torino. Ma Emiliano non aveva un cattivo carattere. Solo che quella volta proprio la pazienza gli era scappata.

Ho conosciuto Tonino Zorzi. Quando costruì la prima delle sue Reyer scendevo non infrequentemente da Milano, dove lavoravo, per andare a cena (con un gruppo di amici che lo aveva “adottato“) in un rinomato ristorante di Venezia. Ascoltarlo tra un piatto di pesce e un goto era uno spasso. Lo chiamavano paròn, come Nereo Rocco. Lui stava al gioco. Non parlava quasi mai di basket. Parlava di uomini: i suoi giocatori, soprattutto. Quella Reyer fu un azzardo: una sfida che lui accettò. Un vecchio guerriero reduce da mille battaglie: Sauro Bufalini, il suo capo clan. Uno che conosceva la durezza e le malizie del gioco. Un ottimo uomo squadra: Waldi Medeot. Uno che aveva il fisico e il senso del canestro. Un italo-americano non velocissimo ma con un tiro strepitoso dalla distanza. Tony Gennari che aveva vestito la maglia dell'Ignis in una leggendaria finale a Roma contro una delle tante versioni dell'Olimpia di Cesare Rubini.

E poi i “bambini“. Lo era in fondo, quasi bambino, anche Steve Hawes l'enciclopedia del gioco che da poco aveva terminato il college e che sarebbe durato un anno solo. A Venezia pensano ancora per “colpa“ di Dan Peterson che lo segnalò in NBA. Un mio amico è solito dire: “Ma perché sto mona no se se ga fato i cassi sui?“. Cose da tifosi incarogniti. Stevehawes (a Venezia lo pronunciano tutto attaccato) era un'ala grande esemplare nel gioco. Bellissimo nei suoi fondamentali. Folgoranti come quelli di Terry Driscoll a Bologna. In quelle stagioni c'erano loro due, c'era lo “sceriffo“ Jura, micidiale macino che vestiva la canotta di All'Onestà, la seconda squadra di Milano. E poi c'era Bob Morse a Varese che faceva canestro, “sempre“. Come neppure (a Padova) aveva fatto vedere Doug Moe.

Con Hawes c'era il resto della “nursery“: Lorenzo Carraro, guardia con le molle nelle gambe. Stefano Gorghetto che sfiorava i 2 metri e che dopo una influenza in una sola notte era cresciuto di una decina di centimetri. C'era Milani, il ragazzo che più di ogni altro, Zorzi stimava, per quanto sapeva fare in difesa. C'era il tiratore Spillare. C'era Barbazza, un lungo con relativo talento ma con duecentocinque centimetri di altezza da sgrezzare. E c'era Zanon, il fratellino di Paolo, magnifico arbitro che era stato mio compagno di classe alle medie e con il quale andavamo a tirare a fine lezione nel canestro improvvisato nell'androne di un palazzo patrizio dalla parti della Strada Nuova, abitazione di un nostro compagno.

Bisognava essere matti per disputare una serie A con una banda di bambini. Eppure Tonino Zorzi lo fece. E fece bene. La sua Reyer giocava (a Castelfranco: alla Misericordia le norme federali non consentivano di gareggiare e l'impianto dell'Arsenale non era ancora pronto) una pallacanestro bellissima. E su ogni campo si fece apprezzare. Diceva allora Zorzi di Gorghetto, suo cruccio: “Il limite, Stefano, ce l'ha nella testa, perché la natura gli ha dato tutto quanto poteva dargli“. Parole simili, anni dopo ho sentito dire a Zorzi anche di Carlo Fabbricatore, il bambino che incantò Dean Smith, che a Rubini disse: “Se me lo vendi, me lo metto sotto al braccio e attraverso l'Atlantico fino agli States“. Fabbricatore era una “fabbrica di assist“, in una squadra giovanile che stupì il mondo del basket. Oggi Carlo scrive cose divertenti su un sito di basket. Spero legga “Duribanchi“.  

Potrei chiudere qui. Ma la Reyer maschile, ha deciso l'ennesima rivoluzione. E quindi è una delle formazioni più attese per la nuova stagione. Non dirò i nomi dei nuovi: sono troppi. E alcuni, confesso, non li conosco. Si annuncia, comunque, una squadra fisica, capace di “correre” e di difendere. E questo pivot brasiliano, Bruno Caboclo, eccellente ai mondiali in corso, sembra un acquisto che farà divertire il Taliercio.

Ha cambiato meno la Umana Reyer femminile. A fronte di una concorrenza (Schio e Virtus) che si è visibilmente rafforzata, sembra destinata a recitare il ruolo di terza in commedia. In effetti alla Reyer manca un'ala forte. Una americanona con chili e centimetri tipo la Howard che la condusse alla conquista dello scudetto. Non è detto che terminato il torneo delle professioniste in USA, patron Brugnaro non faccia (e non si faccia) un regalo.

Il basket femminile (anche a Venezia) è in crescita. E benché non sia chiaro quando potrà rientrare Santucci (che al torneo 3 contro 3) si è giocata un crociato, la gente del Taliercio vede in Matilde Villa la sua “dogaressa“. Specie se Mazzon costruirà il suo gioco per le accelerazioni della ragazzina, che conduce il contropiede come lo conduceva Massimo Villetti. E che è finita nel miglior quintetto europeo Under 20. Mi ha scritto un vecchio amico, “vizioso di Reyer“, che al Taliercio non si perde una gara, né dei maschi, né della ragazze: “Sto ano, Matilde farà cacao“. Che è un intraducibile modo veneziano per dire di qualcuno che “spaccherà eccetera, eccetera“. Ai passeri.

 

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