I sentieri di Cimbricus / Quando andammo a vedere i dingo
Martedì 29 Agosto 2023
Era l’anno 1994. Dino mi disse che sarebbe andato in ferie per una quindicina di giorni e dopo ci saremmo risentiti. Quelle ferie sono durate ventinove anni, non l’ho più visto. Solo lunghi silenzi e lo sprofondare lento nelle tenebre.
Giorgio Cimbrico
“Senti, ti andrebbe di andare a vedere i dingo?”. Dino beve il caffè e risponde con uno sguardo, da sotto gli occhiali. “Però ci portiamo dietro le macchine per scrivere”. E così saliamo su un taxi, usciamo da quel poco di città che è Canberra e arriviamo in una via di mezzo tra una fattoria e uno zoo famigliare. “Aspettaci” diciamo al tassista. I dingo sono un maschio, una femmina e tre cuccioli: hanno le orecchie appuntite e l’occhio vigile. “Che ora è?”. “Le dieci e mezza”. “E se andassimo allo stadio?”.
La strada è lunga, la terra è molto rossa, canguri che saltellano, canguri investiti. Il Bruce Stadium – intitolato a una stella della rugby league – è circondato da diecimila eucalipti. E’ domenica, le gare cominciano presto e la gente sta arrivando con i cesti per il picnic: le curve sono in erba. Aspettiamo.
Tutto era iniziato con un ritardo. Io aspettavo Dino oltre il varco, a Fiumicino e lui non arrivava e io allungavo il collo e non lo vedevo e i minuti passavano e la nostra prima tappa, per Francoforte, stava per partire. Dino veniva da Man, Coppa del Mondo di marcia: di atletica non ne aveva mai abbastanza e poi d mezzo c’era un amico, Maurizio.
Arriva, con quei suo occhi un po’ impallinati. Da quel momento, seduti uno accanto all’altro: l’alba sulla roccia e sulle forre color porfido dell’Afghanistan, le vacche sui prati dell’aeroporto di Delhi, lo slalom tra i grattacieli di Hong Kong, la croce del Sud nella notte australe, l’Opera House di Sydney che compare tra una nuvola e l’altra. E poi Canberra per un sonno breve e profondo, per una cena consigliata da un maitre bresciano: “Roast Beef, direi”. “Ma come, noi facciamo 20.000 chilometri e lei ci consiglia la cosa più banale del mondo?”. “Avete mai mangiato il roast beef australiano’”. “No”. “E allora mi direte”. Aveva ragione lui.
E noi adesso siamo qui ad aspettare che cominci il programma dell’ultima giornata della Coppa del Mondo e alle 14,11, bang, partono i 400 e Dino e io seguiamo la corsa perfetta di Marita Koch e quando passa accanto al tabelloncino posato ai 300 e quello segna 34” ci alziamo insieme e buttiamo qualcosa fuori dalla gola, un verso, un grido: 47”60. In Europa è notte piena. Scriviamo le nostre corrispondenze ma dobbiamo attendere perché arrivi il primo dimafonista di servizio. Dino dettava veloce e chiaro, rafficando i nomi che avevano bisogno di spelling, anche queli più semplici.
In queste ore ho avuto il tempo di scuotermi, di rivivere momenti, di pensare a quando andavamo a Porta Nuova a comprare l’Equipe appena arrivata con il treno che parte al mattino dalla Gare de Lyon. Dino si stupiva che Parientè e Billouin dessero tanto spazio a Bouchard. “Chissà, forse perché è elegante come Marcel Hansenne”. Per l’Equipe – lui, di formazione più francese che anglosassone – aveva grande stima. Nell’86, agli Europei di Stoccarda, capitò che il mio nome uscisse su quelle pagine (avevo raccontato a Glanz qualcosa su Stefano Mei) e io provai una certa emozione. Augusto Frasca, interpretando alla perfezione il ruolo dello smontatore di miti, stirava le labbra sottili in un sorriso ironico, Dino intervenne: “Giorgio ha ragione ad essere emozionato: l’Equipe è l’Equipe”.
Quando non ero nemmeno alle prime armi, Dino mi affidò servizi che per me sembravano sogni: il duello tra Mennea e Papageorgopoulos, ad esempio. Titolo: “Mennea all’esame di greco”. Una volta ero a San Bonifacio per un meeting che non esiste più e Rita Bottiglieri fece il record italiano dei 100H. Da un telefono a gettoni improvvisai una “bracciata” e Dino la mise in aperura di pagina.
Come doni, ci scambiavamo i risultati che spulciavamo dalla riviste e quella caccia era una gioia e negli stadi facevamo in modo di esser compagni di banco. Capitò anche a Helsinki, nell’estate del ’94 quando Dino salutò la medaglia di Maria Curatolo con un balzo in piedi e una frase indimenticabile: “L’atletica italiana salvata dalla Casa del Rubatà”. Maria aveva cominciato a correre con un gruppo di tapascioni sostenuti da un forno dove si cuoceva il grissinone.
Alla fine di quegli Europei, pieni sempre di una limpida luce del Nord, Dino mi disse che sarebbe andato in ferie per una quindicina di giorni e dopo ci saremmo risentiti. Quelle ferie sono durate ventinove anni, non l’ho più visto. Ogni tanto, qualche frammento di notizia. Poi, lunghi silenzi, lo sprofondare nelle tenebre, nel buio. E io spesso ripensavo a certe sue confidenze e capivo che, partendo da un fatto, da un’espressione, da un sorriso, lui aveva plasmato una sua realtà.
“Vecchia roccia, mi daresti una bella sigarra?” sono le prime parole che ho udito dentro quando ho saputo che Dino non c’era più. Lui amava l’atletica e concedeva un posto speciale e affettuoso alla 4x100. Non ha saputo né di Tokyo né di Budapest.
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