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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
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Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





I sentieri di Cimbricus / La nostra Sara continua a volare

Mercoledì 19 Aprile 2023

 

simeoni


Per il vero non ha mai messo. Dalle pedane all’immaginario collettivo, simbolo di una atletica azzurra degli anni d’oro, almeno quanto le volate di Mennea. Oggi un altro traguardo, con un abbraccio affettuoso da parte di tutti noi di S.O.

Giorgio Cimbrico 

Sara, un lungo tempo di capelli arricciati, di ranocchie sui calzettoni, di voli, di una vita in alto, inevitabile titolo dell’autobiografia scritta con Marco Franzelli. Arrivano oggi i 70 e sembra un attimo fuggente da quel pranzo per i 50 anni quando da Rivoli Veronese scendemmo traversando la Costermano di Adolfo Consolini: due simboli nati a un paio di tiri di sasso. 

Lei continua a essere molto sicura: l’oro olimpico di Mosca è il momento più desiderato, più amato. “Conservo tutto in un cassetto: quei calzettoni con le ranocchie, la maglia, il numero di gara e e spero che le tarme non diano l’assalto”. 

Vincere un’Olimpiade, che nel suo caso non subì mutilazioni. “Per me è stato così in ogni appuntamento: Europei, Europei indoor, Coppa Europa. Le avversarie erano tutte del nostro continente”. 

Di quei giorni moscoviti esistono molte immagini. In una, cerimonia d’apertura, Sara indossa la divisa della squadra CONI, un tailleur che lei porta con elegante disinvoltura. Il tricolore non c’è e non ci sarà neppure il giorno dopo, il 27 quando andrà sul podio spendendo le lacrime avanzate. L’inno olimpico non è quello di Mameli ma riesce a essere coinvolgente. Il Lenin è ancora in pietra molto cruda, niente a che vedere con la trasformazione all’americana subita dopo la caduta dell’URSS. Gli applausi sono caldi, l’aria di Mosca anche. 

“C’è ancora qualcosa da dire?”. Se Sara fosse il pianista di Casablanca, la pregheremmo di “suonarla” ancora una volta, quella finale. E così non resta che rivolgersi a un’altra musa, quella della danza, Tersicore, passeggera presenza della sua infanzia. Quella finale come uno spettacolo di danza moderna, sullo stile di Martha Graham: sentimenti che scaturiscono dai corpi, dai gesti, con una trama, uno scioglimento. Drammatico, lieto, coinvolgente. 

Sulla pedana i muscoli crepitano, i tendini cigolano come le cime di una nave assalita dal fortunale. Tre errori a 1.94, fuori. Rosemarie Ackermann rimbalza sui sacconi, si porta le mani al viso come per dire “ma cosa ho combinato?”, accenna un sorriso triste che rende ancor più malinconico il suo volto e va a rifugiarsi ai confini della pedana. Darà un’occhiata, si sforzerà di incitare Jutta Kirst, ma sa bene che è inutile perché l’italiana ha un’arma affilata: il temperamento. A batterla Rosemarie è riuscita solo nei suoi momenti più nitidi. Come quattro anni prima a Montreal, ma quella aveva saputo vender cara la pelle e sino a 1.91 le aveva alitato sul collo. 

Qui tutto finisce rapidamente: a 1.97 si arenano sia Jutta sia Urszula Kielan, la polacca dall’aspetto efebico che riporta a Jacek Wszola e anche l’italiana sbaglia, ma una volta sola. Alla seconda, quando ricade, alza al cielo occhi, batte le mani, scuote la testa, tutto in una sequenza rapida. Dopo il sesto posto di Monaco ’72 (nel giorno di Ulrike Meyfarth bambina prodigio e del giudice tedesco che assesta un bel calcio ai sacchi mentre l’asticella ballonzola e vibra dopo l’ultimo salto di Danche Blagoeva), dopo l’argento di Montreal, Sara Simeoni è là in cima e c’è il tempo di notare che i calzettoni sono ben tirati quasi al ginocchio, che Erminio Azzaro ha divorato un pacchetto di Muratti (a quel tempo al Lenin, come dappertutto, si fumava) e i mozziconi sono lì attorno, prove schiacciate dell’amore del fidanzato e della passione del tecnico e che Primo Nebiolo è reduce da una visita scaramantica alla toilette. Era duro, a volte spietato, ma il cuore sapeva tremare. 

Sara fa il giro della pedana, abbraccia le altre, si commuove e si commuoverà sul podio. Al Lenin la parabola tocca il punto più alto. E nessuno ha mai potuto dire che abbia vinto una gara in scala ridotta. Le forti c’erano. Tutte. Quella sera, dopo la commozione, i brindisi: Sara ha sempre apprezzato un buon bicchiere: il bianco di Terracina, nei suoi lunghi periodi formiani e il rosso delle sue parti, Amarone possibilmente. 

Le trivenete hanno scritto la storia dell’alto: Sara è veronese di Rivoli, Alessia Trost pordenonese, Elena Vallortigara di Schio, provincia di Vicenza. Non viene dall’est la più piccola e quella che si è spinta più in su: Antonietta Di Martino è campana di Cava de’ Tirreni. Per il resto, una storia che si svolge tra Adige e Tagliamento. Sembra una poesia di Ungaretti: I fiumi. 

Con il 2.01 che sta per tagliare i 45 anni (ripetuto 27 giorni dopo nella Praga magica del Golem e della prima di Don Giovanni), Sara diventò primatista mondiale scavalcando i 2.00 berlinesi di Rosemarie Ackermann che un anno prima erano sembrati prodigiosi, una tappa storica, un caposaldo: l’Horine donna, disse e scrisse qualcuno. Il record tenne quattro anni, sino all’8 settembre della finale europea di Atene 1982: Ulrike Meyfarth, ex-bambina prodigio, 2.02, Sara terza, stessa misura, 1.97, della seconda, Tamara Bichova, bella e dagli occhi eternamente tristi. 

Dopo il 2.02 di Antonietta (Torino 8 giugno 2007, prima che si spingesse sino a 2.04 indoor nel 2011) e quello di Elena (Londra 22 luglio 2018), quel 2.01, simbolo di un’atletica azzurra quanto il 19”72 di Pietro Mennea, oggi è primato della provincia di Verona e record su suolo bresciano. E’ rimpicciolirlo? Semmai il contrario. Sara saltava 2.01 cinque generazioni sportive or sono. Un’esploratrice. 

E così è necessario tornare a Brescia, campo di via Morosini, oggi intitolato a Sandro Calvesi, maestro degli ostacoli: per lunghi anni è stato detto che quel record appartiene ancora alla sfera dell’emozione provata dall’autore (in questo caso, dall’autrice) e da chi era lì, ed erano in tanti (c’è chi giura su 5000) e che finì per affidarsi al racconto pubblico e privato, alla tradizione orale. Di certo c’è che per quell’Italia-Polonia femminile la RAI non c’era. E così trent’anni sono stati necessari per riesumare le immagini girate da Giuliano Vivarelli per Brescia Telenord. Il commento era di Calvesi. 

Nove salti, tre sbagliati, la solitudine in pedana da 1.89 quando erano andate fuori Urszula Kielan, Sandra Dini e Danuta Bulkowska, per trasformarsi in spettatrici. Il 2.01 venne alla seconda, molto pulito, molto netto. Non un tremore dell’asticella. Sara non andò avanti: due record italiani (il primo a 1.98) e un record mondiale potevano bastare. 

Quel giorno, ricorda un purosangue come Gianni Romeo, Franco Carraro venne eletto presidente del CONI e la notizia finì di taglio. Era il quarto record del mondo di un’italiana, ma quelli di Ondina Valla e Claudia Testoni erano annebbiati dal tempo e i 1500 erano ai primi vagiti quando Paola Pigni galoppò verso il primato. Qui c’era l’alto, qualcosa di assoluto, e venne naturale smontare pagine, le prime, e ricomporle. Meno di un mese dopo, venne Praga e ancora una volta Sara portò lo scompiglio dopo quell’indimenticabile battaglia di dame sul colle di Strahov in una serata fredda e caldissima.

 

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