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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
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Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
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(le oltre 400 testate dimenticate)





I sentieri di Cimbricus / Giubileo di diamante per la “Mala Pasqua”

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Mercoledì 12 Aprile 2023


boniface 

Cadde il 14 aprile 1963, a Grenoble. Come in un piccolo-grande capolavoro di Beppe Fenoglio, fu un giorno di fuoco, il più gran fatto dell’evo moderno del rugby italiano. Quello contemporaneo è un’altra cosa. 

Giorgio Cimbrico 

Visitata e rivisitata come la Meta di Gareth Edwards, che di anni ne ha compiuti cinquanta, esaminata da tutte le angolazioni come Rashomon di Kurosawa, etichettata, pescando nel cinema e nella letteratura, come “La grande Illusione”, “Orizzonti di Gloria”, “Beau Geste”, “Tre Passi nel Delirio”, “Grandi Speranze”, “Vittorie Perdute”. Il repertorio è vasto e suggestivo. Mala Pasqua porta anche alla lirica, alla Cavalleria Rusticana. In realtà, meglio etichettarla come la Pasqua del ’63 e basta, con la nascita di un concetto in molti casi giustificato: l’onorevole sconfitta. 

La Francia era quella del 5 Nazioni e veniva da un torneo che l’aveva vista soccombere di misura, a Colombes, alla Scozia (6-11), passare largamente a Lansdowne Road (5-24), cadere dopo un match-chiave, all’insegna dell’equilibrio (6-5) a Twickenham, chiudere battendo 5-3 il Galles. I punteggi parlano di un rugby diverso. Alla fine, Galli-Galletti secondi a quota 4, dietro l’Inghilterra a 7. Tutti pericolosi, ma l’uomo a cui non concedere spazio era Guy Boniface (fratello di André), due mete e due drop nei quattro match contro le vecchie Unions. Chi è vecchio e sempre caldo d’amore, conosce i fatti. Per chi sa solo vagamente, per chi si è avvicinato da poco al pianeta ovale, per chi non sa proprio, non resta che riassumere, affidandosi a fonti sicure. 

Giuseppe Tognetti, da “Rugby, da una città uno sport”: … dopo l’ingiusto 3-11 di Napoli del ’58, dopo l’iniquo 0-17 di Chambery, dove gli avanti italiani diedero una tale lezione di gioco da farsi soffiare dai francesi Francesco Zani, dopo il  contrastatissimo 3-6 di Brescia nel 1962,  si arrivò alla drammatica Pasqua del 1963 a Grenoble allorché gli azzurri, guidati da un Lolo Levorato che aveva fiutato la grande occasione, furono costretti a cedere negli ultimi minuti di una gara veramente eroica. In vantaggio per 12-6 sino a pochi passi dalla fine, si videro derubare della vittoria sul filo del traguardo e i francesi arraffarono di misura un successo per 14-12. Soltanto chi ha visto quella partita a fianco degli italiani può sapere cosa costò di volontà, di dedizione, di sofferenze e di amare lacrime dopo la sua ingiusta conclusione”.  

 

fra-ita-1963  

Il "tabellino" tratto da Annuario dello Sport 1964 (Ediz. SESS)

 

Luciano Ravagnani, da “Rugby, storia mondiale dalle origini ad oggi”: “La grande occasione per l’Italia contro i francesi è quella di Grenoble, il 14 aprile 1963. Due mete con il napoletano Augeri e il trevigiano Levorato e due penalty del romano Perrini consentono agli azzurri un vantaggio per 12-6 fino a pochi minuti dal termine. Il sogno sfuma su mete di Dupuy e Darrouy ed è una trasformazione di Dedieu, un nome che ha in effetti del divino, a decidere l’incontro 14-12 per la Francia. Un’occasione persa, una sconfitta amara ma onorevolissima sulla quale si costruiscono grandi progetti”. 

Valerio Vecchiarelli e Francesco Volpe, da “2000, Italia in meta”: Del Bono ha deciso, manda in campo quindici uomini che si esaltano. […] La partita è una battaglia in cui non si fanno prigionieri. La capacità di rompere il gioco altrui, di difendere, di andare a placcare l’avversario in campo nemico si moltiplica minuto dopo minuto e diventa un’arma micidiale che mette in difficoltà gli increduli francesi. Si gioca una partita in trincea, gli azzurri lottano come leoni e il loro essere presenti in ogni angolo del campo li porta a due passi dal sogno. Solo due passi. Al 9’ […] uno splendido Levorato vola a segnare sulla bandierina. Ma il sole basso sull’orizzonte e il forte vento a favore danno una mano alla riscossa francese: prima Dupuy, poi Lira segnano in successione due mete che sembrano ristabilire gli equilibri voluti alla tradizione. La Francia crede di poter volare via, la disfatta è nell’aria. Ma quando si cambia campo, il vento gira e le emozioni tornano a rincorrersi. […] Il cronometro sembra voler attendere gli ultimi cinque minuti, quelli della condanna: Darrouy inventa uno slalom fulminante, taglia a fette il campo e consegna l’ovale elle mani del superman Dupuy per la meta che torna a regalare ossigeno alle speranze francesi. Dedieu, un nome che sembra inventato per nascondere un destino crudele, trasforma. Il sogno si infrange a un minuto dal termine. Il terza linea Lira con astuzia si schiera direttamente nella linea dei trequarti per creare l’uomo in più in attacco, gli azzurri distrutti ormai dalla fatica non leggono immediatamente la novità tattica ed è sempre Darrouy a dare spettacolo. La sua cavalleria gli recapita un pallone dorato, lui si rende protagonista di una fuga solitaria e vola verso la meta del sorpasso e della vittoria”.  

Gianluca Barca, da “La Sesta Nazione, ottant’anni di storia della Federazione Italiana Rugby”: “All’hotel Savoy, con gli azzurri, c’era anche Paolo Rosi che aveva dato l’addio all’azzurro nove anni prima, proprio contro la Francia. Era a Grenoble come inviato della Rai e la settimana dopo avrebbe compiuto 39 anni. Lui i francesi li aveva incontrati cinque volte, nessuna vittoria, ca va sans dire, e contro di loro aveva segnato una sola meta. Purtroppo, però, alla squadra B: valeva meno. Ai polsi della camicia, in quel sabato di vigilia, Rosi sfoggiava gemelli d’oro a forma di pallone da rugby. Una civetteria che non sfuggì agli azzurri, tra i quali Sergio Lanfranchi che dieci anni prima era stato suo compagno in Nazionale. Li regalo al primo di voi che fa tre punti ai francesi, fu la promessa del principe dei telecronisti: la meta valeva tre punti. Dopo nove minuti Lolo Levorato si conquistò il premio. Poi l’Italia andò in vantaggio addirittura 12-6 con una meta di Augeri, in tuffo alla bandierina. A un minuto dalla fine gli azzurri erano ancora in testa, per un solo punto. All’ultimo secondo la pugnalata che fece svanire ogni sogno. (…) C’è anche chi dice che l’arbitro non vide un passaggio in avanti. Fatto sta che Christian Darrouy, che era veloce ed elegante come un levriero, segnò per i suoi la meta della vittoria. Quella del 1963 fu il culmine di un’epoca iniziata una decina di anni prima e che seppe produrre atleti formidabili nonostante le ristrettezze dei tempi e la pochezza dei mezzi”. 

Quel buonanima di Marco Bollesan la ricordava così: “Mi avevano visto giocare nell’under 21 a Barcellona e nella A a Chambery e Del Bono aveva detto: ma chi è quel numero 7 che è da tutte le parti? Ne aveva parlato a Invernici e così mi chiamarono e mi diedero anche la divisa che mi faceva comodo: staccavo lo scudetto e me la tiravo in giacca blu, che non era poco per uno come me che non aveva una lira in tasca. 

Allora non avevamo le informazioni che oggi tutti hanno a disposizione, ma sapevamo di andare ad affrontare una squadra pazzesca che aveva perso di un punto a Twickenham e aveva battuto Irlanda e Galles. I fratelli Boniface (nella foto d'apertura) avevano inventato un movimento, il decalage, che finiva per liberare l’uno o l’altro, Albaladejo lo chiamavano monsieur drop, Crauste era Le Mongol ed è detto tutto, e gli altri avanti erano come la carta vetrata, e così ricordo che c’è stato un momento in cui sembravamo papaveri, tutti coperti di sangue. Io lo buttavo dall’arcata, i piloni da orecchie che pendevano. 

Era un rugby spietato, pieno di colpi proibiti, di intimidazioni. Li buttavi giù e così capivano che eri uno da tener d’occhio e finivi per prendere una scarica di legnate. Non c’erano le sostituzioni, meno che meno quelle temporanee, e così diventava un gioco a eliminazione. Spietato. Non era una battaglia, era la guerra. A me, l’ho raccontata un sacco di volte, la pezza più grossa la diede Crauste perché mi tuffavo sulla palla e alla fine è venuto, mi ha battuto sulle spalle e mi ha detto: ti ho insegnato a vivere. E mi ha regalato la sua maglia e non ha voluto la mia: so che è la prima partita che giochi, tienila pure, mi ha detto. Sono cose che fanno piacere ma le Mongol, pelato e con quei baffi che spiovevano, picchiava proprio duro e sul sopracciglio ho ancora il suo souvenir. 

Non avevo neanche 22 anni e dei compagni di squadra conoscevo soprattutto Degli Antoni e Soncini che erano di Parma, avevano sempre dei soldi in tasca e a cena finivano sempre per pagare e io mangiavo come una bestia, anche due secondi, perché avevo sempre una fame pazzesca e a casa avevo poche occasioni per fare il pieno. 

Quando sono arrivato a Grenoble, Hotel Savoy, ho conosciuto Lanfranchi che parlava con l’accento francese, ma si sentiva più italiano di noi e quando parlava dei francesi diceva merde. Era lì per lavorare, in mischia o in miniera faceva poca differenza. Volevano nazionalizzarlo, per farlo giocare con il galletto ma lui figurarsi. Lanfranchi è stato un esempio per tutti, il veterano e il maestro: l’intervallo era breve ma a lui servì per andare strapparsi le graffette che gli avevano dato sopra l’occhio. Cosa fai? gli ho domandato: mi faccio male da solo, non voglio dare ai francesi la soddisfazione di pensare che mi hanno fatto male loro. 

I giornalisti che ci avevano seguito, Rosi, Imbastaro e Manetti, hanno detto e scritto che è stata una grande partita. Io non lo so. Durissima, questo sì, sin dall’inizio. Loro pensavano di essere superiori, di sbrigarsela in fretta contro noi italiens e si sono trovati di fronte dei tipi che volevano vendere cara la pelle e l‘hanno venduta. E così siamo arrivati a quei minuti finali in cui ci hanno fregato e quando è finita – devo dirlo? –, è stata come una liberazione.

Rammarico, tristezza, dolore? Tutto lavato in quelle docce in comune, insieme al sangue, al fango. Quello che avevamo, lo avevamo dato. E così, quando dopo un po’ di anni, ho cominciato a leggere qualche libro, ho trovato le parole che andavano bene per noi quel giorno e le ha dette uno di quelli che avevano combattuto uno contro dieci a El Alamein: mancò la fortuna, non il valore. Può sembrare retorico, ma è proprio così”.

 

 

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