I sentieri di Cimbricus / L'uomo che vinse la Madre dell'Universo
Giovedì 23 Marzo 2023
“Abbiamo sistemato il bastardo”, confessò di aver detto Ed scendendo verso il campo base: i kiwi sanno essere bruschi. Era la mattina del 29 maggio 1953, gli stivali erano pezzi di ghiaccio, la luce sembrava grazia divina.”
Giorgio Cimbrico
Settant’anni fa, appena prima dell’incoronazione di Elisabetta II, l’ultima avventura imperiale: un “colonial” alto e secco come una corteccia battuta dal vento, accompagnato da uno sherpa duro e sorridente, salì in cima agli 8848 metri dell’Everest, per dedicare la conquista della montagna più alta a una giovane sovrana che di lì a quattro giorni avrebbe ricevuto la corona. Moderni aruspici interpretarono impresa e omaggio come favorevoli a quel regno: è andata così.
Al seguito di quella spedizione, un solo inviato, James Morris – Jan dopo il cambiamento di sesso –, autore/autrice di uno dei capolavori sull’Impero, “Pax Britannica”, e di molti altri libri che meritano di esser letti. Non tutti sono stati tradotti in italiano.
Edmund Hillary, sir dal 16 luglio 1953, dopo uno dei primi reali atti firmati dalla sovrana, ebbe altri ordini cavallereschi e diventò membro dell’Ordine della Giarrettiera. Era un neozelandese dal volto lungo, come tanti All Blacks della sua epoca, e inevitabilmente aveva giocato a rugby ma aveva finito per dedicarsi ad altri tipi di attacchi e di mete: alpinista, esploratore polare, difensore del Nepal, delle sue montagne e degli Sherpa, patriarca attorno al quale i Tutti Neri si affollavano prima di ogni loro partenza per il nord del mondo, sino al gennaio del 2008 quando se ne andò, a 88 anni.
“Il simbolo di noi kiwi”, disse la primo ministro Helen Clark in un elogio funebre lontano un Everest dal barocchismo delle parole: Hillary era essenziale come una statua di Giacometti, stereotipo del fuciliere che combatte nella jungla o sulle balze infernali di Cassino. In realtà, era stato navigatore sugli idrovolanti. Era andata peggio a suo padre, finito nel ’15 nell’inferno di Gallipoli e tornato a casa con danni irreversibili, nel corpo e nella mente.
Chomolangma, Madre dell’Universo: l'Everest in nepalese è donna. Se lo chiamiamo così è per un attacco di piaggeria del governatore Andrew Waugh nei confronti di George Everest, cartografo dell’India Service. Era il 1865 e il Grande Gioco spionistico tra britannici e russi si combatteva anche al confine del cielo dove Shangri-La sembra dietro il primo costone.
Nel '24, quasi un secolo fa, aveva provato George Mallory: giacca di tweed, maglione di cachemire, calzoni a coste. Qualcuno testimoniò di averlo visto, con il compagno Andrew Irvine, sull'ultima cresta, a 8600 metri; altri dissero che erano stati spazzati sulla via del ritorno e che l'Everest era stato vinto. Qualche anno fa il ritrovamento del corpo, prodigiosamente integro, in una pietraia abbandonata dai ghiacci, non ha chiarito. Mallory è rimasto un cavaliere del sogno, il protagonista di un’antica e disinvolta “chanson de geste”. Hillary era diverso, concreto come il suo aspetto scabro e deciso.
E così, quasi trent'anni dopo, sarebbe toccato a Ed che allevava api a Tuakau, che con suo fratello aveva cominciato ad arrampicare sul Ruapeuh e sull’Oliver, Alpi neozelandesi. “Ero su quelle europee quando mi accettarono in una spedizione britannica”. Quella buona, ma afferrata alla gola dal timore di esser bruciata sul filo di lana: gli svizzeri erano arrivati a 260 metri dal culmine prima di essere respinti dalla tormenta e da quel vento che martella e fa impazzire. Con loro, lo sherpa Tenzing Norgay, che sarebbe passato nel gruppo di Hunt e Hillary. Evans e Bourdillon provarono il 26 maggio ma un erogatore di ossigeno non funzionava quando la vetta era a 100 metri. Così Hunt, capospedizione, diede via libera a Ed e a Tenzing.
«Vento, neve e ultima tenda a 8500 metri: la mattina del 29 maggio gli stivali erano pezzi di ghiaccio: due ore per scaldarli», raccontava. Un muro di roccia alto 12 metri – il passaggio di Hillary –, ghiaccio lucente, neve solida: alle 11.30 erano in cima ed era una giornata bellissima, con una luce assoluta. Ed fotografò Norgay che non ricambiò: quella macchina gli sembrava una diavoleria. Lassù per quindici minuti, per piantare la bandiera neozelandese e quella, a due triangoli, del Nepal, fissare una piccola croce, lasciar cioccolata come offerta alla dea della montagna, cercare un segno del successo di Mallory: non lo trovarono.
«Abbiamo sistemato il bastardo», confessò di aver detto Ed scendendo verso il campo base: i kiwi sanno essere bruschi. Chissà se Norgay capì. Quando Tenzing raggiunse gli antenati – era l’86 –, venne il momento della rivelazione: il primo piede a posarsi lassù era stato di Hillary.
Dopo la leggenda, Hillary è andato avanti con la sua storia: la scalata di altri dieci picchi himalayani (un’occhiata allo habitat dello yeti, non trovato …), la Transantartica tra il ‘56 e il ‘58 per onorare Amundsen il vincitore e Scott lo sconfitto, il ritorno in Nepal e la nascita dell’Himalaya Trust per costruire scuole, ospedali, ponti e aiutare l’etnia minacciata degli Sherpa. La tragedia aerea che, nei pressi di Katmandu, gli strappò la moglie Louise e la figlia Belinda, sedicenne, non lo allontanò dal paese che amava.
Raro trovare chi in vita ha avuto tanti onori: il volto sui 5 dollari, il corpo in bronzo sotto il monte Cook, l’Himalaya neozelandese, il nome su strade, scuole, edifici pubblici. Nell’85, sul pack del Polo Nord con Neil Armstrong e nel 2007, poco prima di andarsene, ancora al Polo Sud per l’omaggio a chi – Scott e Shackleton – seppe vivere con coraggio estremo la dignità della sconfitta.
Poi, un’ultima volta tra quei picchi che sembrano la spina dorsale del mondo: cadde, finì all’ospedale e da lì ammonì chi ha trasformato la montagna in un immondezzaio, in un terreno di conquista di record senza poesia: «Deve esser rispettata, protetta, rimaner pulita». T. E. Lawrence, detto d’Arabia, amava il deserto per il suo lindore infuocato, Edmund quello del ghiaccio vivo, della roccia eterna, della luce che sembra grazia divina.
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