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I sentieri di Cimbricus / Mennea, una stagione della nostra vita

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Martedì 21 Marzo 2023

 

mennea-mosca 


Una telefonata all’alba: “Pietro è morto”. Era il 21 marzo di dieci anni fa, al confine tra inverno e primavera. Un poeta ha detto che aprile è il mese più crudele. Per lui e per noi vecchi (e per una intera generazione) non è stato così.

Giorgio Cimbrico

Karen Blixen salutò il vero amore della sua vita, scomparso in una fulminante tragedia, recitando antichi versi su un vincitore della corsa dello “stadio”, i 200 metri. E quelle parole, quello strazio sono venuti alla superficie quando la notizia è diventata realtà. Con Pietro Mennea andava via una stagione della nostra vita, di chi aveva seguito le sue imprese, i suoi addii, i suoi ritorni. Di chi era tornato a incontrarlo e lo aveva trovato meno angoloso, più dolce. Il tempo rimodella.

L’ultima immagine è al salone d’onore del CONI (lo stesso che lo avrebbe accolto nel dopo), anniversario dell’AICS. Pietro è pallido, smagrito, invecchiato, pochi capelli bianchi simili a stoppie. Tra amici si finisce per parlarne: “Hai visto Pietro?”. Lo hanno visto, ma nessuno sa nulla. Pietro poteva farsi vivo dopo aver scritto un libro (venti all’attivo, autobiografici e no), dopo aver preso una laurea (sono state quattro) o, al tempo dell’Europarlamento, per segnalare qualche sua interpellanza, o appariva per qualche dibattito e finiva per sparare a zero su uno sport e un’atletica che sentiva lontani, estranei, ma di sé concedeva poco ed è stato proprio così: la malattia, la gravità crescente erano triste patrimonio di pochissimi, la moglie, la sorella, Giovanni Malagò.

In momenti come questi possono esser usate trite metafore, logore allegorie (l’ultimo colpo di pistola, l’ultima volata) che non cancellano la brutalità di quanto è avvenuto.

Robert Parienté, direttore dell’Équipe, un giorno, quando se ne andò Vladimir Kuts, coniò una frase semplice e antiretorica per i campioni che se ne vanno. “Uno dei più grandi”. Pietro è stato uno dei più grandi per quel che ha saputo fare: il record del mondo, l’oro di Mosca, i vent’anni passati in pista a digrignare e a spremere da sé il massimo, l’ambizione, la debolezza improvvisa che a Los Angeles ’84 lo portò dal famigerato dottor Kerr per un’iniezione proibita che lui, calvinista del Sud, finì per confessare scatenando gli attacchi degli ipocriti. E si è portato via i suoi record, le sue vittorie. Tutti imbattibili, perché il 19”72 messicano è un’araba fenice per i suoi eredi, dopo 43 anni abbondanti è ancora record europeo e neppure Kenteris, Lemaitre, Guliyev gliel’hanno portato via.

Pietro, l’uomo a molte dimensioni, il trasfigurato del 28 luglio 1980, allo stadio Lenin, quando riuscì a vincere la gara che aveva perso, quando mise le mani su quel che aveva sognato: la medaglia d’oro che aveva odorato giovanissimo, a vent’anni, terzo a Monaco di Baviera, dietro a Borzov e a Larry Black. Che aveva sentito allontanarsi quattro anni dopo a Montreal quando quel quarto posto – nel giorno felice del giamaicano Donald Quarrie – era stato accolto come una tragedia, precipitandolo in una cupa disperazione.

Mosca era l’approdo finale, era l’assalto possibile. Mutilati, ma erano i Giochi. E quella che pareva una formalità divenne un calvario. Sino a quella lunga immagine che non si spegnerà mai. Allan Wells, solido ingegnere scozzese, allenato dalla moglie, aveva già reso felici i britannici: vincendo i 100 era diventato il successore di Harold Abrahams, oltre mezzo secolo dopo l’Olimpiade parigina che “Momenti di Gloria” ha contribuito a rendere leggendaria. Wells era più scattista puro che velocista “prolungato” ma quel suo veemente avvio, unito a un’ambizione di doppietta che lo rendeva un Braveheart, sbatacchiò Pietro come un albero piegato dalla tempesta. Correva in ottava corsia, al largo, e già quel sorteggio gramo lo aveva gettato nella costernazione. Olimpiadi maledette, aveva cominciato a confidare a se stesso.

Non funzionò niente in quella curva: un’azione di braccia scomposta, un’andatura beccheggiante, la testa sprofondata nelle spalle, il mento come una prua che non sapeva fendere le onde. Wells davanti, Mennea ottavo, sesto, quinto, in preda a un vortice che lo investe, che lo spinge. Piomba sullo scozzese in quegli scacchi che segnano l’approssimarsi della linea, passa mentre Wells si grippa, alza un dito al cielo. Il suo gesto. E a quel punto qualcuno andò a chiamare Primo Nebiolo che non aveva avuto abbastanza cuore per guardare e, raccontava lui, si era nascosto in una cabina telefonica e, raccontava sempre lui, sfogliava l’elenco di Mosca, in cirillico. Aspettando il boato e il verdetto. “Ha vinto, ha vinto, ha vinto”, fu il crescendo di Paolo Rosi.

Questa immagine continua ad avere la meglio su quella messicana del record del mondo, un’altra tappa nell’escalation della volontà. Perché sino al 12 settembre del 1979 quel record apparteneva a Tommie Smith che era la calligrafia assoluta e molte altre cose ancora: l’arrivo a braccia alzate, la corsa a ginocchia altissime, il tuonare del suo 19”83 e dopo, al momento delle medaglie, i pugni chiusi (il suo e quello di John Carlos) verso il cielo, guantati di nero, gli occhi bassi davanti alla bandiera americana. Un’impresa diventato un poster, un totem del ’68. E così Pietro si trovò a battagliare anche con la storia e ne venne a capo in 19”72 lasciando a sette decimi il secondo, il polacco Dunecki, in quella che assomigliò a una cronometro contro se stesso, contro il tempo. Gli avversari erano troppo piccoli e lontani.

E così nel dopo Mosca, quando Pietro si era sbloccato e aveva infilato una serie infinita di vittorie, di tempi strabilianti (20”01 al Golden Gala che gli è stato intitolato e, tra i tanti, un 20”12 sotto la poggia e nel freddo di Bruxelles), di distacchi abissali, Vittori provò a insistere, per riportarlo lassù “perché ne sono sicuro – ha ripetuto per anni – avrebbe potuto portare il mondiale tra 19”50 e 19”60”. Pietro rispose che poteva andare bene così. Non era facile da rodere, quel record. Carl Lewis arrivò a 3 centesimi, Mike Marsh, nel grande “ohhh” del pubblico di Barcellona, lo mancò per uno. E così tirò avanti per quasi 17 anni, sino a quando Michael Johnson, nei Trials che precedevano i Giochi di Atlanta ’96, lo abbassò per 6 centesimi, prologo della volata di un mese dopo: 19”32. Usain Bolt, evoluzione della specie o mutazione, sarebbe venuto dopo.

Pietro ombroso, Pietro rabbioso, Pietro impegnato in un’eterna battaglia, prima contro Borzov, poi contro gli americani, Pietro monaco guerriero, Pietro egoista che pensava solo ai propri interessi (“la persona più generosa che io abbia conosciuto – lo ricorda ancora oggi Sandro Giovannelli –, una volta in Coppa dei Campioni, con la maglia dell’ALCO Rieti, corse 100, 200, 400 e le due staffette e non volle una lira”), Pietro ondivago che si ritira, ci ripensa, ritorna, si ritira ancora e decide che ci deve essere spazio ancora per lui e per la sua Olimpiade. Pietro e la sua collezione di maglie: dall’AVIS Barletta a Capannelle, da Brain Power all’Iveco che gli donò la sua prima macchina, una 132 quando aveva già 27 anni.

C’è anche un Mennea che al coperto torna allo scoperto, quello del 20”74 del 13 febbraio 1983 (giusto quarant’anni fa) quando riunì le corone dei record all’aperto e indoor, quello che per un campionato di staffette portò 5000 persone al campo scuola di Genova per una semplice e fugace frazione di 4x400.

Era amato perché era terribilmente normale, magro, leggero, senza definizioni muscolari sospette, ed era inesauribile: lo dimostrò a 31 anni compiuti quando ai primi Mondiali, a Helsinki, ruggì ancora e fu bronzo, dietro a Calvin Smith e a dieci centesimi da Elliot Quow d’argento. Era già Mennea il Vecchio (come lo chiamavano i tedeschi come se parlassero di un grande pittore), il punto di riferimento dei tre giovani (Carlo Simionato, Stefano Tilli, Pierfrancesco Pavoni) che si riunirono attorno a lui per conquistare un posto d’onore che ha continuato ad essere la più grande conquista di una staffetta azzurra prima del trionfo olimpico di Tokyo.

“Eravamo come Platone e Aristotele” ha detto Livio Berruti, il calligrafico piemontese che aveva guardato all’atletica come a un gioco. Pietro aveva preferito il sacrificio e la sofferenza perché li amava. E così verrà ricordato: un irriducibile che, senza esser nato cavaliere, aveva meritato l’investitura.

 

 

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