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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
“Il più colto uomo di sport”




Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





Duribanchi / La triste sorte di San Siro (e non solo)

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Martedì 7 Marzo 2023

 

sansiro 


“Milano per lo sport è sistematicamente in ritardo: di idee e di quattrini. Milano da tempo si è radicalizzata nel fashion, nell'urbanistica e più recentemente nel turismo. Lo sport resta un optional. Specie a livello sociale. E nel 2026 ...”

Andrea Bosco

Ci sarebbe tanto da dire: dai 71 migranti morti a Cutro (una quarantina al momento i dispersi), dalla guerriglia urbana innescata a Torino a favore dell'anarco-terrorista Cospito (che minaccia di suicidarsi per protestare contro il rigidissimo sistema di detenzione al quale è sottoposto), dalla fuga (con lenzuola, stile Banda Bassotti) di un pericoloso mafioso da un carcere (di presunta massima sicurezza) in Sardegna, dall'inchiesta della Procura di Bergamo per i 4000 morti per Covid che si sarebbero (tesi della procura) potuti evitare, alla scuola (casi di Firenze, di Bologna, del liceo Carducci di Milano) tornata ad essere zona di fazioni (nere e rosse) e percosse.

Dall'incredibile serie di reati che quotidianamente Napoli, più di altre città offre alla pubblica opinione, a quelli continui (in tutta Italia) ai danni della pubblica amministrazione, dalla protervia del Comune di Milano nel concedere ( ormai sine die ) licenze per i dehors della movida, all'inciviltà urbana dei “progressisti” (sempre tollerata dal comprensivo comune di Milano ) nei confronti di ciclisti, monopattinisti, e scooteristi che ormai si sono appropriati dei marciapiedi, diventate piste di transito, sovente a folle velocità.

MILANO – Viale Romagna a Milano ore 17.30, zona Stazione Centrale. Un ubriaco di origine marocchina minaccia e accoltella alcune donne per derubarle. Intervengono per difenderle alcuni passanti: accoltellati anche loro. Dei 500 agenti promessi dal precedente governo Draghi a Milano? Neanche l'ombra. I militari: presidiano da improbabili attacchi piazza Duomo e il centro culturale francese alle Stelline. Ho visto personalmente una scena raccapricciante nella metro, stazione Cairoli. Due rom beccate a borseggiare i passeggeri. Intervengono gli agenti. Le fermano ed evitano loro il linciaggio. Ma loro irridono: forze dell'ordine, passanti e vittime. “Usciamo tra un'ora. E domani torniamo a rubare. E' il nostro mestiere: noi rubiamo“.

La protervia lascia basiti. Il paese è ormai allo sbando. E allora? Cosa deve fare un cittadino? Si vuole il Far West? Io detesto la violenza. Perché la conosco. L'ho vissuta da bambino. Poi in collegio. Poi all'università. Poi durante il servizio militare. L'ho subita. E ho reagito, non proprio da educanda, alla violenza. Per evitare di finire in ospedale. Sono vecchio, il mio tempo è in scadenza. Ma non ho intenzione di subirla la violenza. Se nessuno mi protegge, cosa devo fare? Ho una rabbia infinita per quello che questo paese è diventato. In stazione qualche volta ci vado. E ogni volta che scendo a “Centrale“ sembro un gatto sulla difensiva pronto ad attaccare. Ho paura. Ma non fino al punto da esitare a difendermi. Devo mettere in conto di prendere una coltellata dal primo sbandato di passaggio?

E' un problema enorme quello della delinquenza in strada. Ma un paese che rifiuta di ripristinare la legalità è un paese destinato al caos. Ieri governava Draghi. E prima di lui Conte. Oggi governa Meloni. Ma quotidianamente la cronaca ci dice che niente è cambiato. Consultare la Storia. Non quella antica. Non la pericolosa Roma dei Cesari o quella ancora più pericolosa dei Papi Re. Consultare la storia di Berlino e quella di Chicago. Quando la legalità viene archiviata il sangue è destinato a scorrere per le strade.

Ci sarebbe tanto da dire, ma dirlo è inutile. Le voci come la mia sono “clamanti” nel deserto.

SUPERBOMBA – La Russia di Putin ha sperimentato una superbomba, che non è atomica, ma ha la capacità di radere al suolo cose e uomini nel raggio di 40 chilometri. Come fermare Putin? Nessuno ha la soluzione. Meglio: nessuno osa ipotizzare una soluzione che non sia quella di dare al macellaio di Mosca, quanto chiede: mezza, forse tutta l'Ucraina. Poi toccherebbe alla Moldavia. E quando il tiranno (che in Russia è arrivato ad abolire le parole occidentali nelle scuole: la cosa rammenta i provvedimenti di qualche altro soggetto che si esibiva in uniforme?) dovesse puntare la Polonia allora sarebbe terza guerra mondiale.

Perché i polacchi non si limiterebbero a difendersi come gli ucraini. E' poco conosciuto l'episodio della cavalleria polacca che attaccò, spade sguainate, i tank nazisti durante la seconda guerra mondiale. Morirono quasi tutti quei soldati, ma scrissero una pagina epica. Per evitare la terza guerra mondiale serve portare Putin al cessate il fuoco. Serve cacciarlo fuori dai confini ucraini. Se Putin si prenderà l'Ucraina, la guerra mondiale sarà inevitabile. E con essa l'umanità intera arrischierà di scomparire.

CONGIUNTIVI – Ma forse non serviranno bombe e missili per far collassare il mondo. Il mondo lo farà con altri mezzi. Vittima della propria stupidità. Della propria ignavia. Della propria cattiva coscienza. Occhio alla parola: la Treccani (mio padre la prese, io l'ho aggiornata fino al 1990, poi basta) ha deciso che quella “i” con la quale la scuola (dei miei tempi, quella del merito, quella dei professori che non veniva sbertucciati, quella dove andavi vestito decorosamente) ci ha fatto crescere, non sia più essenziale. Perché nell'uso comune, nella lingua parlata, è caduta in disuso. Del resto già arditamente la cisposa Accademia della Crusca aveva sentenziato che l'uso del congiuntivo non fosse essenziale. “Parla come magni“. E pazienza se invece che mangiare, “grufoli“.

Vade retro congiuntivo. Del resto il più noto sterminatore di congiuntivi, tra i giornalisti italici, fece, malgrado la smisurata ignoranza una carriera riverita e sontuosa. Negli USA va peggio che in Italia. Il New York Times (mica pizza e fichi) ha dedicato uno sterminato articolo con richiamo in prima pagina: “Black equestrians plead for helets that'll fit”. Con tutti i “cazzi” con i quali quotidianamente quel paese si deve confrontare il problema per il quotidiano di tradizione liberal sarebbero i caschetti protettivi, che non sarebbero dimensionati per chi “monta“ con capelli afro.

Situazione quasi insolubile per i produttori, anche per questioni tecniche. Tagliarsi il bulbo? Non sia mai. Ergo, visto che senza caschetto non si può cavalcare, andare a cavallo, per via della discriminante “locks” (la pettinatura rasta alla comandante Carola) ha per il NYT una valenza razzista. E quindi visto che le “rasta“ e i “rasta“ non possono reperire caschi da equitazione adatti, che nessuno monti più su un cavallo. Lo si cancelli dalle specialità olimpiche. Si chiudano maneggi e scuole di equitazione.

PURITANI – Se pensate che negli USA, qualcuno sia andato fuori di melone, dovreste prima compararlo con quanto accade in Gran Bretagna, dove in ossequio alle nuove sensibilità su colonialismo, genere e razzismo i musei hanno operato una vera (assurda e per certi versi ignobile) rivoluzione. Una polemica contro il passato che ha portato, ad esempio, la Tate a sbattere fuori dalla sua collezione un maestro come William Hogarth: il suo “Satana, peccato e morte” del 1734 ispirato al “Paradiso perduto“ di Milton non sarà più visibile. Lo hanno sostituito con “La famiglia inglese al tè“ dell'assai meno conosciuto Joseph van Aken avendo peraltro l'accortezza di spiegare nella didascalia che “il tè era (?) una bevanda amara addolcita con zucchero (non sempre, geni della Tate, non sempre) prodotto nelle colonie britanniche”. Anche lo zucchero è razzista? E le banane? E la patata importata in Europa dalle Americhe? Alla Tate, tuttavia si sono superati, per una mostra dedicata proprio ad Hogarth. Scena: visitatori davanti ad un quadro che in primo piano ha una sedia. Didascalia a latere: “Forse che le gambe della sedia rappresentano tutte quelle persone nere e di colore senza nome che hanno reso possibile la società che sosteneva la vigorosa creatività di Hogarth?“.

Non dovete pensare che la Tate sia l'unico esempio. Secondo la Courtauld Gallery di Londra, il celebre “Bar alle Folies-Bergere“ di Manet sarebbe una tela maschilista. L' espressione della fanciulla al bar è stata giudicata “inquietante, specialmente perché pare interagire con il cliente maschio che è mostrato nello specchio. La barista appare solo come come un altro oggetto nell'invitante insieme in offerta: vino, champagne, liquore e birra“. Mi aspetto che ora, maledetti puritani, diate alle fiamme “Moll Flanders“ e censuriate pesantemente “Barry Lindon“. Doveste emigrare in Iran trovereste immediatamente lavoro. Ma come cavolo scrivo: se lo legge la Treccani roba che mi mette immediatamente all'indice per esibizionismo grammaticale.

Le ragazze di Gauguin? “La diffusa fantasia razzista delle ragazze tahitiane, come sessualmente precoci, condusse al loro spudorato sfruttamento“. Qui i sacrestani londinesi qualche ragione ce l'hanno. Il colonialismo sessuale è stato una piaga, mai abbastanza denunciata nel mondo occidentale. A proposito: il turismo sessuale ancora esiste. Ed è florido. C'è infatti un prodotto che è sempre di moda: la patonza. Invece di ragliare alla luna mandare una raccomandata all'Onnipotente. Si chiamano “stimoli sessuali“. La colpa (si fa per dire) è Sua. E non ci fosse stata, gente come gli allestitori di Londra non sarebbe magari venuta al mondo. Non una grande perdita, in fondo. Visto che questi qui hanno pensato bene di rompere le scatole persino a casa di Jimi Hendrix a Mayfair dove la leggenda del rock organizzava feste passate al mito con Lennon e Elton John. “Meglio raccontare anche la storia delle persone più marginalizzate che frequentavano la casa “hanno detto i soloni che nei musei hanno lasciato buchi al posto dei quadri. E quindi, spazio al lattaio, al giardiniere, al postino di Mayfair dalle imperdibili storie.

SAN SIRO – “Nessuno vuole più il vecchio San Siro (in arte Meazza)“: parola di Beppe Sala, sindaco di Milano. Non mi dilungo su una storiaccia che è destinata ad esplodere nelle mani del primo cittadino di Milano. Da oltre quattro anni, tra ricorsi, ambientalisti e verdi in rivolta, gente che vive l'abbattimento ipotizzato del vecchi stadio dove hanno giocato Meazza e Lorenzi, Schiaffino e Nordhal, Mazzola e Rivera, Corso e Prati, Van Basten e Ronaldo (il Fenomeno), Maldini e Ibra come una vera (etiam ego) ignominia, la vicenda stadio di Milano, non trova una soluzione.

Si potrebbe restaurarlo, ma le società che oltre all'impianto mirano alla speculazione edilizia, non ne hanno mai voluto sapere. Prima lo stadio volevano farlo in società: ora hanno deciso di separarsi. Ognuna avrà il proprio impianto. Sala è in gramaglie: se i club se ne andranno sfumerà l'investimento miliardario per riqualificare la zona. Quella zona diventata una landa di teppisti urbani e violenti trapper ricevuti in pompa magna a Palazzo Marino. Dei tre progetti iniziali nessuno sarà realizzato. Il Milan (che punta a rilevare da un privato l'attigua zona a La Mura in territorio Ippodromo) si è mosso per primo, come pretende il nuovo patron italo americano, Cardinale. Il progetto si vocifera sia stato affidato all'archistar Boeri (quello del Bosco Verticale). Non dovesse andare in porto l'acquisto, la zona alternativa individuata sarebbe a Sesto San Giovanni. Anche per La Mura, verdi sul piede di guerra: quella zona la vogliono adibita a verde pubblico.

L'Inter dal canto suo ha individuato a Rozzano la propria futuribile struttura. Patata torrida nelle mani di Sala: se i club se ne andranno evaporerà anche il milionario contratto d'affitto stipulato per l'annuale gestione. Ergo: cosa fare di San Siro? Le Olimpiadi (2026) incombono. Il Meazza le inaugurerà: per farlo dovrà comunque disporsi a un restauro. Dai bagni, ai punti ristoro, il Meazza è uno stadio indecente. Amatissimo e frequentatissimo dai tifosi, ma poco funzionale. E con un terzo anello dal quale bisogna munirsi di binocolo per vedere i giocatori in campo. L'ideale sarebbe togliere il terzo anello e smantellare le torri, restituendo il Meazza all'originale profilo. Ma per farlo ci vogliono risorse, che lo spiantato comune di Milano (impegnatissimo in ciclabili a tappeto) non ha. Ma che potrebbe trovare destinando l'impianto a concerti, eventi, altri sport.

Sala (e va capito) si dice “amareggiato come sindaco, cittadino e anche tifoso“. Ora il vero pericolo è che il Meazza (che dal 2025, tra l'altro, non potrà essere più toccato scattando per quella data un vicolo che la Soprintendenza non potrà rimuovere) diventi una abbandonata cattedrale nel deserto. Milano in passato, sul tema, non si è fatta mancare il pane. Il Palasport in zona San Siro, nato come Velodromo (in un periodo nel quale le corse su pista erano in declino) per anni fu abbandonato. Rammento che feci una inchiesta per il Corriere d'Informazione: solo per accendere le luci, spendevano per “L' Arca di San Siro“, ogni volta, un milione di vecchie lire. Poi fu riattivato. Diventò la casa del basket. Giuliano Gemma recitò in un film che raccontava le gesta della “Sei Giorni“. Fino a quando una nevicata non fece crollare il soffitto. E l'impianto fu raso al suolo. Temporaneamente fu allestito il Palatrussardi. Vicenda lunghissima (anche stavolta in ballo delle monache) che forse racconterò in futuro.

Giorni pericolosi anche per il Palalido, che aveva visto giocare sul suo parquet i Vianello e i Pieri, i Vittori e i Riminucci. Poi i Brumatti, i Masini, gli Isaac, gli Jura, i Kenney, i fratelli Gergati , oltre all'incredibile George Brosterhous, hippy scovato (non si sa come) da Cesare Rubini che aveva un pitone in casa. Da ristrutturare, bloccato dall'amianto, dagli appalti, dai sub appalti, dai sub sub appalti. Dai ricorsi al TAR. Alla fine l'impianto che Letizia Moratti (su suggerimento del sottoscritto) avrebbe voluto intitolare a Cesare Rubini fu abbandonato da Giorgio Armani che trasferì l'Olimpia ad Assago, al Forum.

Finito? Ci sarebbe il Vigorelli. La pista è storica e sarebbe un delitto rimuoverla anche se nessuno la usa. Almeno con frequenza. Da anni sta cercando una sistemazione. E' vissuto il Vigorelli come un agnello nella jungla: in mezzo ai pericoli. E' ancora in piedi, qualche attività viene fatta. Ma è anche il simbolo, il Vigorelli, di una Milano che per lo sport è sistematicamente in ritardo: di idee e di quattrini. Strano accada nella capitale economica d'Italia. Ma accade. Milano da tempo si è radicalizzata nel fashion, nell'urbanistica e più recentemente nel turismo. Lo sport è un optional. Specie a livello sociale. Vecchia storia: meglio ciclabili e parchi rispetto ad un nuovo impianto.

E non importa se l'impianto sia uno stadio, un palazzetto, una piscina, una pista di atletica, un palazzo del ghiaccio. Già: a Milano per quel tipo di impianto sono in forte ritardo. La Lega ha proposto di usufruire di quello di Torino. Ma Torino a suo tempo dal ticket Milano-Cortina, si sfilò. Ha fatto una proposta regionale anche il governatore del Veneto Zaia: non sia mai, ha detto Sala. Il “ghiaccio è roba nostra“. E mentre si rivendica, il tempo corre: fugit come spiegavano i latini. Fugge il tempo: inesorabilmente. Verso il 2026. Non che ciclabili e parchi non servano. Servono e servono tanto. Ma non a scapito di luoghi dove si fa sport. A meno di non pensarla come Moravia ne “I racconti romani“. Ma non approfondisco. La cosa diventerebbe politica. E francamente mi sarei anche rotto scatole di questo clima da “elezioni permanenti“. La dialettica politica non esiste più. Perché i partiti non si rispettano tra di loro. Almeno quando sono in Parlamento dove fingono di scannarsi . Poi a fine seduta vanno a mangiare assieme. Con i nostri quattrini: ca vas sans dire .

 

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