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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
“Il più colto uomo di sport”




Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





Duribanchi / A margine del mondiale dei petrodollari

Martedì 22 Novembre 2022

 

oip 

Tutti scandalizzati, tutti a stracciarsi le vesti in nome dei non-diritti. Eppure era prima, molto prima, che si doveva protestare. Scoprirlo adesso è ipocrita. Intanto un bel libro spiega perché il nostro calcio sia finito su un binario morto.

Andrea Bosco

Gianni Infantino, presidente FIFA, ha spiegato che le critiche relative ai violati diritti umani in Qatar sono ingiuste. Che lui si sente “nero, gay, musulmano” (oltre ad un’altra decina di cose: la sindrome di Napoleone prende questi personaggi come il Covid prende qualsiasi umano) e che “l’Europa dovrebbe chiedere scusa per i 3000 anni di ingiustizie perpetrati ai danni di paesi come il Qatar”. Sgomento nel mondo.

L’Europa, nell’accezione moderna, data dal 1957 e oggi come Unione Europea conta 27 paesi che presto potrebbero diventare di più. Prima di allora c’era il continente europeo: diviso e in guerra tra stati e staterelli. Per questioni economiche, etniche, geografiche, religiose. C’erano stati i romani con il loro impero a dominare l’Europa, poi (semplificando di molto) ci provò Carlo Magno. Poi Bonaparte che voleva farne un continente francese. Dicono gli storici che se a Waterloo la pioggia non avesse impantanato la sua artiglieria, avrebbe potuto anche riuscirci.

Infantino è quello che è: scoprirlo ora è patetico. Ipocrita invece è scoprire che il Campionato del Mondo si gioca in Qatar, che si fermeranno i vari campionati europei, che i giornalisti in Qatar (come già quelli in Argentina nel 1978) non potranno circolare fuori dal “villaggio” (blindatissimo) della competizione. Che chi violerà il coprifuoco sarà severamente punito. Che i giocatori non potranno indossare fasce multicolori per appoggiare i movimenti omosessuali (a rischio ammonizione, Kane capitano dell’Inghilterra, dopo aver manifestato il proposito di farlo, è tornato sui suoi intenti). Che non si potrà (benché lo sponsor ufficiale produca “bionda”) bere birra sugli spalti.

E che se anche il segretario di Infantino ha confessato di essere gay, i qatarioti che lo dovessero ammettere sarebbero, dal loro governo, considerati affetti da una pericolosa malattia. A parte i 6500 lavoratori immigrati, morti durante la costruzione degli impianti, schiavizzati per anni (come da legge del Qatar) con tanto di ritiro del passaporto. Scoprirlo adesso è ipocrita. Prima, si sarebbe dovuto protestare. Prima, contro le federazioni che hanno accettato qualsiasi compromesso in nome del dio denaro. Infantino è un puparo che ha imparato il mestiere da Blatter. Ma opporsi a Infantino (così come a Ceferin, satrapo UEFA) è possibile. Anzi: sarebbe possibile. Ma ci vorrebbe al timone gente diversa dai Gravina: gente con le pelotas. Non tutti le tengono. Quelle mostrate dai giocatori dell’Iran che per protestare contro il governo dei preti iraniani (e i morti causati dalla repressione contro le donne) non hanno cantato l’inno nazionale. Rischiano grosso quando torneranno in patria. Forse persino la vita.

In ogni caso, tra le meravigliose luci di Marco Lodola, i fuochi d’artificio, uno stadio a forma di tenda, cammelli ed altre invenzioni, il mondiale è iniziato. Fino a gennaio, niente beghe nostrane. Doha è una sorta di Las Vegas. Nata dal deserto. Il Qatar è uno dei paesi più ricchi del mondo. Ha voluto il mondiale sottraendolo a sorpresa (molti sostengono ungendo le ruote di Blatter, allora presidente FIFA) agli Stati Uniti che lo avranno (in comproprietà) tra quattro anni.

Il mondiale in Qatar resterà un evento unico. Servirà al Qatar, non al resto del mondo. Ipocrita anche sostenere che sul Qatar è stata aperta una “finestra sui diritti umani”. I giornalisti non potranno circolare fuori dal “villaggio”. I sudditi qatarioti non sapranno di eventuali proteste. I media locali sono censurati. Infantino ha annunciato penalizzazioni per chi sul campo oserà criticare il Qatar. Dicono che Infantino ammiri Machiavelli. Sbagliato: Infantino ammira “Fattilicazzituarazzi”. Non ci sono ideali nei pensieri di Infantino: solo pecunia. Che magari puzza di petrolio. Ma che “non olet”. Notoriamente “non olet”.

Finita la cicuta (ma io non sono Socrate e col cavolo che eccetera: ci penseranno i miei acciacchi) mi dedico ad un bel libro del mio collega di avventure in RAI, Sergio Calabrese, inviato per anni in tutto il mondo con la sua telecamera su ogni evento sportivo e non solo sportivo. Quando sostava a Milano, viaggiava con me sugli eventi culturali. E ogni 7 dicembre, canonicamente inaugurava (con il sottoscritto) per il Tg2 dal foyer della Scala, la “prima” ambrosiana del Piermarini.

A proposito: Ambrogio era (lo saprà Salvini?) un “immigrato” tedesco, eletto vescovo a furor di popolo. Cacciò dal Tempio anche l’Imperatore (“rito ambrosiano” a Milano, non “romano”). E vuole la leggenda, come testimonia una colonna (con buco) situata nella piazza che introduce alla basilica che porta il nome dal santo, abbia mandato “al diavolo” persino il Demonio. Ambrogio battezzò Agostino (e hai detto poco), dopo averlo contestato sull’interpretazione delle Scritture. Che Agostino leggeva in modo manicheo. Mentre Ambrogio (che oltre ad avere un brutto carattere era, da buon meneghino, pragmatico) sosteneva una lettura “allegorica”.

Qui non si tratta di campanile (il marinaio è nato in Campo San Boldo, nei pressi di una ex chiesa sconsacrata dopo essere bruciata nel Cinquecento), ma di “onore” acquisito. Dopo 51 anni passati in Via Vincenzo Monti non dico che sono più milanese che veneziano, questo mai. Ma mi sento anche (anzi molto) milanese: me lo sono guadagnato. Per questo ho una profonda avversione per Beppe Sala, sindaco in carica. Uno che proprio non ricorda (o non vuole ricordare) come era Milano una volta. Senza Skyline, senza fashion ad ogni angolo della ZTL, ma vivaddio con valori che sono scomparsi. Quelli dei milanesi. Che parlavano ancora in dialetto. Quelli della borghesia che fece sviluppare la città: l’industria e insieme l’editoria. Quella degli immigrati meridionali, ma anche toscani e veneti. Quella del mezzo apolide Helenio Herrera e del triestino Nereo Rocco: Inter e Milan. Quando il Meazza non aveva il terzo anello e si chiamava San Siro, Vecchioni scriveva sulle sue luci una meravigliosa canzone e se qualcuno mai avesse ipotizzato di abbatterlo, lo avrebbero ricoverato alla neuro.

“Dall’inviato dietro porta: splendori e crisi del calcio italiano” – edito da P&V Edizioni e il cui ricavato viene devoluto (2000 euro finora) alla Mensa dei Poveri dei Cappuccini di Vigevano – è un lungo viaggio dell’autore (siciliano emigrato a Vigevano) nel calcio, tra mestiere, passione, virtù e vizi del “gioco più bello del mondo”. Che per questa sua lunga traversata si è avvalso anche del parere di una ventina tra amici e colleghi. Ne è uscito un affresco variegato. Una sorta di Pollock affascinante e a volte contraddittorio, visto che tanti pareri difficilmente avrebbero potuto produrre un Botticelli o un Palladio. Lavoro dedicato a Giampiero Galeazzi, Ignazio Scardina, Beppe Viola e Gianni Moschino. Che non era un giornalista ma che fu con la maglia (del Torino soprattutto) uno dei più grandi “registi” del calcio italiano. Era di Vigevano ed era amico di Calabrese.

Visto che non sono mai stato bravo con le recensioni, mi affido, per comporre il collage, ai pensieri di alcuni di loro. Scusandomi per quanti avrò trascurato: spazio tiranno.

Tifoso della Juventus, Calabrese rammenta come a Torino diedero l’annuncio dell’ingaggio di Giovanni Trapattoni (del quale Calabrese divenne amico) e che fu contattato da Boniperti in stile FBI: in un motel a metà strada tra Torino e Milano. Recitava il comunicato: “Andando in pensione per raggiunti limiti d’età il responsabile del settore giovanile Ugo Locatelli, questi viene rimpiazzato da Cestimir Vycapaleck, al settore osservatori passa Parola e quindi la prima squadra viene affidata a Giovanni Trappatoni”. Impagabili sabaudi.

Calabrese racconta tra i mille incontri anche quello con Nelson Mandela alla Coppa d’Africa del 1996. Quando, su folgorazione del collega Franco Zuccalà, riuscirono a far dire a quel grande uomo la frase “Voglio mandare un saluto al Papa”. Che in RAI conquistò consensi e (inevitabilmente) pinte di invidia. Fino a pag. 107 è Calabrese show. Ma dalla 108, iniziano gli altri. Aurelio Capaldi citando Bruce Chatwin si chiede – nel calcio del post Covid, nel deserto dell’Allianz di Torino –, prima di un Juventus-Milan: “Che ci faccio qui?”. Andrea Riscassi ricorda la sua Milano “ammantata di dolore e tristezza” nel periodo della pandemia. Secondo Donatella Scarnati “per un calcio in crisi serve gioco di squadra”. Bastasse quello.

Più realistico Franco Zuccalà con la sua “mangiatoia nel pallone”. Idee vere da Marco Civoli: “Il calcio che vorrei: serie A a 18 squadre, playoff per il titolo, tre retrocessioni, il ritorno al campionato riserve, una Champion’s a misura d’uomo e non la bulimia eccentrica, intesa come danè, che in milanese significa soldi”. Carlo Paris decide di farsi del male ricordando “che notte, quella notte allo stadio Barbera di Palermo”: Italia esclusa per la seconda volta di fila al Mondiale. Jacopo Volpi focalizza uno dei tanti problemi: “i giovani in serie A e serie B giocano poco perché a loro vengono preferiti calciatori stranieri. Agenti e procuratori, veri padroni del sistema, preferiscono trattative all’estero invece della valorizzazione dei talenti nostrani”. Porquè? Direbbe il linguacciuto portoghese. Per Stefano Bizzotto “il calcio di oggi non lascia spazio all’ottimismo”.

Sacrosante parole. Con i Ceferin, i Gravina, gli Infantino il calcio è finito su un “binario morto”. Visto che in ogni giornalista si nasconde (neppure troppo bene) un narciso, ci sono le parole anche del “marinaio” nel libro di Calabrese. Tante, certamente troppe, concesse. Sbrodolo con il seguente passaggio: “Allo stadio si andava mescolati tra tifosi. Qualche volta partiva un ceffone per un rigore non dato o un fallo truffaldino non fischiato. Ma si poteva tifare assieme. Nessuno si azzardava a definire il vicino “ebreo”. Nessuno ululava al giocatore avversario “nero di emme”. Gli insulti, ieri come oggi, erano tutti per l’arbitro e per le inconfessabili attività della moglie. Altri tempi. Quelli con la radiolina della Sony che portava i risultati delle “altre” partite.

Quando il “marinaio” sgambettava (e menava) sui campi di Prima Categoria, sognava di diventare un calciatore professionista e si vantava di avere “un destro come quello di Boniperti”. Adesso qualcuno mi manderà un messaggio con su scritto: “Nostalgia canaglia”. Uno che aveva ancora tutti i capelli, che aveva imparato a giocare a tennis (Maxima Torneo che allora era il top, regalata dalla morosa) e che per incantare le squinzie si metteva occhiali da sole alla John Foster: al secolo Paolo Occhipinti giornalista e cantante. Il mio amico siculo, John Foster di Vigevano, non sa che per qualche anno l’ho frequentato (Occhipinti fu ottimo direttore di Oggi in Rizzoli dove ho lavorato). E che sono stato a casa sua in Corso Magenta. Occhipinti fu anche scrittore e comparve, come attore, in un film con Franchi e Ingrassia dove interpretava il suo alter ego canoro.

Il mio amico Sergio. Che per un servizio sulle “armi del West” (le repliche le fabbricavano nel bresciano) mi fece conciare come un bounty killer. Colt, speroni e Stetson compresi. Togliendomi in pochi minuti quel poco di credibilità che faticosamente mi ero.costruito. Che tempi, Sergio. Che bei tempi.

 

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