Pensieri in Barca / Vita agra del "martello di Manerbio"
Domenica 23 Ottobre 2022
Se ne è andato a 86 anni Piero Tomasoni. Faceva il pugile. Anzi, a un certo punto, gli toccherà quel soprannome, un appellativo di cui andava talmente orgoglioso, che i familiari lo hanno voluto ricordare anche nel necrologio.
Gianluca Barca
A Piero Tomasoni, scomparso lo scorso 18 ottobre a 86 anni, piacevano i film western. Stava con i “buoni”. A volte, addirittura, teneva per gli indiani. Non che da ragazzo avesse molte occasioni di andare al cinema, quello no. Però qualche volta capitava. Ammirava Gregory Peck: forte, bello sicuro di sé. Uno che nella vita, non al cinema, poteva permettersi di dire: “hai fatto la scelta giusta, ragazzina!”, financo alla giornalista che per una serata romantica con lui aveva rinunciato all’opportunità di intervistare Albert Schweitzer, premio Nobel per la medicina.
Gregory Peck aveva il fisico del cow-boy, ci sapeva fare con le donne e, almeno nei film, aveva la risposta pronta che metteva a tacere gli avversari, zittiva i nemici. Quando la lingua non bastava, nella migliore tradizione del west, sapeva farsi rispettare a suon di cazzotti. Un mito, insomma, uno di quei modelli per cui andavano matti i ragazzi degli anni Cinquanta. Che uscivano dal cinema imitandone i gesti e le espressioni del viso. A Milano come a Manerbio, da dove veniva Piero Tomasoni.
Piero era ben piantato, robusto, il lavoro in campagna lo aveva forgiato stagno. In quello, anche lui poteva essere un cow-boy. Certo non aveva il carattere spavaldo degli eroi di quei film e se c’era un po’ di gente preferiva tenersi in disparte. Non amava richiamare l’attenzione e in quanto a lingua lunga, quella proprio gli mancava. Ancora ancora se la cavava col dialetto della bassa bresciana, ma non era lui quello dell’ultima parola. Però sapeva menare le mani. Faceva il pugile. Anzi, a un certo punto della carriera, gli toccherà un soprannome, “il martello di Manerbio”, un appellativo di cui andava talmente orgoglioso, che i familiari lo hanno voluto ricordare anche nel necrologio pubblicato alla sua morte sul giornale. Anche se nel ricordarlo Tomasoni arrossiva e abbassava la testa. Come se, in quell’epiteto da “saloon”, ci fosse qualcosa di cui vergognarsi.
Figuriamoci poi l’imbarazzo quando, di boxe, dovette parlare alla Bruna, conosciuta sul lago di Garda. Lei del pugilato conosceva poco o niente, spiegargli di sparring partners, di rounds, gong e KO era peggio che sforzarsi di imitare quegli attori americani. Eppure anche lei, pur non avendo di fronte Gregory Peck, fece la scelta giusta. La signorina che non distingueva un uppercut da un diretto non solo sposò “il martello”, ma in quattro e quattr’otto, trentadue mesi, i due sfornarono tre marmocchi, ai quali fece seguito più tardi una quarta bimba che completò la famiglia.
Piero Tomasoni divenne professionista nel 1961, a ventisei anni. Tardi? Santo Amonti, l’altro pugile bresciano, benché più giovane, a quell’epoca era campione d’Italia dei mediomassimi già da un paio di anni. Era l’idolo dei tifosi locali. “Mé so’ ignìt dopo, sono arrivato dopo – rifletteva Tomasoni nel suo dialetto stridulo –. Magari l’è chèl che m’à ‘n po svantagiàt”. Piero si era appassionato alla boxe seguendo le imprese di Cavicchi, di Loi, di Mario D’Agata. Sul ring si era dimostrato subito a suo agio. Poi, in men che non si dica, insieme alla Bruna si era ritrovato sulle spalle una famiglia numerosa. E il pugilato, da passione, diversivo, si era fatto necessità, mestiere.
Umile, coraggioso, Tomasoni aveva un fisico forte, ma troppo pesante per i mediomassimi e basso di statura per i massimi. In questo imitava Amonti. Finì per combattere la maggior parte dei suoi incontri con i giganti della categoria superiore. I quali spesso lo sovrastavano di svariati centimetri. Tomasoni li contrastava con un stile personale, aspro come quello di tutti i “guardia destra”, in altre parole i mancini. Gli mancava l’eleganza, non la potenza. Era un ragazzo di campagna, misurato e prudente, per nulla facile agli entusiasmi. Non era pessimista, ma come il contadino, tendeva a rammentare che dopo il sole verrà la pioggia e col sereno, spesso, si accompagna il gelo.
Piero Tomasoni batté Amonti e conquistò il titolo italiano dei massimi. “Sie content, ero contento – ricorda con un’alzata di spalla. Ma non ero certo il primo che diventava campione –. Ghè n’era po di oter … ce n’erano anche altri…”. Come dire che anche nel momento del successo i piedi restavano saldi per terra. Altro che i proclami di Cassius Clay, a quell’epoca campione del mondo, o per restare da noi, lo stile disinvolto dei coniugi Benvenuti, Nino e la moglie Giuliana. Sarebbe bastato vederli ad una premiazione, al Casinò di Saint Vincent, nel 1967: Piero e la Bruna, in disparte, contenti, ma schivi, Benvenuti e signora al centro dell’attenzione, spavaldi, eleganti. “Certo, lui era campione del mondo …”, lo giustificava Tomasoni. “Me sie ‘n scèt de paès, io ero un ragazzo di paese”.
A quell’epoca, la città manteneva intatto il suo fascino, e il territorio cosiddetto “urbano” reclamava una certa esclusiva della cultura che metteva soggezione a chi era nato fuori da quei confini. Sarà stato per quel senso di sudditanza nei confronti di chi sapeva maneggiare meglio di lui le parole che Piero Tomasoni commise in principio di carriera quello che a lungo ha ritenuto un errore imperdonabile. Un cruccio che lo ha avvilito anche a distanza di parecchio tempo. Divenuto professionista, “il martello di Manerbio” firmò un contratto di cinque anni con un procuratore milanese, Leonardo Barravecchia. Fu lui, secondo Tomasoni, a non sostenergli adeguatamente la carriera.
Cosa rimprovera il pugile al suo manager? “Avesse avuto metà della mia volontà, …”, brontolava Tomasoni. Invece, una strada tutta in salita. Col Piero costretto a vendere per pochi quattrini la sua arte povera, spesso sui ring lontani. Come nei due incontri europei con Mildenberger. “Uno dei due match si sarebbe potuto fare a Brescia – ricordava il campione –. C’era persino la disponibilità gratuita dello stadio Rigamonti”. Invece Barravecchia perse l’asta e l’incontro si disputò a Francoforte. “Lü ‘l ghìa en mà el mercato dei pugili tedeschi. El vulìa mia daga lur en dispiaser. Aveva in mano il mercato dei pugili tedeschi e non voleva dargli dispiaceri”.
Quell’altra volta, invece, a Londra, lui che non amava viaggiare, contro Bodell, un inglese che tre mesi dopo avrebbe battuto Amonti. “Ero dato sfavorito 9 contro 1 – ricorda Tomasoni. – Barravecchia, per paura della brutta figura non volle nemmeno venire in Inghilterra. Mi mollò al mio destino. Vinsi per fuori combattimento alla terza ripresa”. La Bruna, a Brescia con i bambini, dovette telefonare alla Gazzetta dello Sport per sapere il risultato dell’incontro. Barravecchia, nei ricordi del pugile, non ebbe nemmeno il coraggio di alzare il telefono per sapere com’era andata. La notte, in giro per Londra, Piero finì festeggiato da un gruppo di tifosi napoletani che contro il pronostico avevano scommesso su di lui. “Con la mia vittoria guadagnarono più di me. Non mi lasciavano più andare a dormire”.
Il ragazzo di paese, timido, ma concreto, incapace di vendersi in un mondo che già allora reclamava un po’ di marketing, nel manager milanese cercava una guida, un aiuto. L’altro, come tanti, faceva i propri interessi. “Ho conquistato il titolo italiano contro Amonti – rifletteva Tomasoni. – Quindes dè dopo, al Sociale, mi hanno organizzato un altro incontro, una specie di passerella, per tenere caldi i tifosi”. Solo che, di fronte, Piero si trovò Fletcher. “En negher alt dù meter”. Altro che bella figura per scaldare il pubblico bresciano, scioccato dall’improvvisa sconfitta del beniamino Amonti! Tomasoni fu battuto per ferita alla quinta ripresa. Ecco, lui che ha ammirato Hagler, Leonard, gli artisti del ring, avrebbe voluto che qualcuno lo aiutasse, di tanto in tanto, a vendersi un po’ meglio, ad essere un po’ più personaggio.
Invece lü l’éra chèl che caminàa col cò bas, lui era quello che camminava a capo chino, come diceva con affetto la signora Bruna, e l’altro, il procuratore di Milano, quello che gli piazzava sotto il naso dei foglietti incomprensibili dove a mala pena, da qualche parte, si leggeva quanto al pugile sarebbe spettato per il combattimento, l’importo della “borsa”, insomma. “Altro che contratti – si lamentava Tomasoni. – Mi davano dei bigliettini e via, andare”.
Avrebbe voluto l’affetto del pubblico, Piero, ma non gli riusciva di esprimere quel sentimento. Eppure, a Roma lo amavano. Al punto che nella battaglia contro Henry Cooper, per troppo amore, finirono per giocargli un brutto scherzo. C’era il titolo europeo in palio. Cooper, un paio di anni prima, a Londra, aveva fatto piegare le ginocchia ad Alì.
Tomasoni, a trentatré anni, sentiva che quella poteva essere la sua ultima occasione per diventare campione d’Europa. L’eccitazione dei tifosi romani lo contagiò. Andò sul ring deciso, per una volta, a forzare il destino e la propria natura riflessiva. Finì al tappeto alla prima ripresa, si rialzò e sulle ali di un entusiasmo che raramente aveva conosciuto prima, scatenò sull’inglese tutta la furia del suo “martello”. Cooper andò a terra durante il secondo round e nel terzo. Poi l’arbitro, richiamò Piero per combattimento scorretto. Il pubblico si agitò per quell’ammonizione e sul quadrato cominciarono a piovere monetine, ortaggi e verdure d’ogni tipo. Il match fu sospeso per ripulire il ring. Cooper tirò il fiato, riordinò le idee, fece appello alla propria esperienza e rinfrancato da quella pausa, nella quinta ripresa, mise ko Tomasoni. Fu la fine di una carriera. L’inizio dei rimpianti.
Prima il bar in via Oberdan, dieci anni. “Non ero un buon barista – ammetteva Tomasoni – Il fumo delle sigarette, la gente sfaccendata sempre a chiederti un ricordo, oppure il perché e il per come di quegli incontri di un tempo”. Piero amava stare sulle sue, non gli piaceva dar corda ai clienti. Il bar, a lui che aveva origini in campagna e non beveva, gli sembrava un luogo angusto, inutile. Un giorno, senza dir niente alla Bruna, passati i quaranta, prese servizio al Laminatoio Polotti, in via Stretta, a Brescia.
Tuttofare, dava una mano dove c’era bisogno. Inutile nascondersi, a casa, con quattro figli, quei soldi facevano comodo. Non si vergognava di lavorare, lui che negli anni d’oro era stato candidato ad incontrare Sonny Liston, l’Orso. Uno che come Tomasoni amava i film western, ma da un’altra prospettiva. “Un match per il titolo è come un film di cowboy, in cui c’è un buono e un cattivo – diceva Liston – La gente paga per veder vincere il buono, ma nel mio film, alla fine, è sempre il cattivo che vince”. Non sempre: Liston finì male. Vittima di una di quelle storie più grandi di loro che spesso accompagnano i pugili durante e dopo la loro carriera.
Piero Tomasoni, invece, ha continuato per anni a fare i sacrifici. “Prima per i figli, poi per i nipoti”, diceva senza imbarazzo. Sonny Liston non venne a combattere con lui, perché a quel punto della carriera non gli interessava affrontare un “guardia destra”. “Meglio così – raccontava Piero senza rimpianto. Magari el m’aress copàt, mi avrebbe ammazzato”. Il buono, qualche volta, vince perché è modesto. Nella vita, non tutti hanno il piglio di Gregory Peck.
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