- reset +

Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
“Il più colto uomo di sport”




Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





I sentieri di Cimbricus / La memoria e i sedimenti del tempo

PDFPrintE-mail

Giovedì 20 Ottobre 2022


koch

 

Là dove c’era una pista, ora c’è l’erba. Ballata all’incontrario su un piccolo stadio, in un luogo riposante e appartato, con le sponde in erba e circondato da migliaia di eucalipti. Su quella pista, oggi scomparsa, la giovane Marita congelò la storia.

Giorgio Cimbrico

Sydney McLaughlin taglierà il traguardo dei 25 anni sul finire dell’Olimpiade parigina del 2024. Attualmente la ragazza del New Jersey ha fortissime chances di ricevere il premio di Atleta dell’Anno di World Athletics (due record mondali e due titoli globali sono un eccellente raccolto) e, determinata com’è – glielo si legge in un volto che sa farsi improvvisamente duro – per il futuro prossimo, Giochi compresi, ha in animo di dar vita a un lungo show. 

Può valersi dell’opera e dei consigli di un allenatore che nella sua lunga carriera ha lasciato segni molto profondi: Bob Kersee. Nato in quella che si chiamava Canal Zone, la parte del Canale di Panama amministrata dagli Stati Uniti, Kersee ha allenato sua moglie Jackie, Florence Griffith-Joyner (che aveva sposato suo cognato Al), Valerie Brisco-Hooks, Gail Devers, Greg Foster, Shawn Crawford, Kerron Clement, Dawn Harper, Allyson Felix Ne ha allenati e allenate anche molti altri e molte altre: questi sono i principali. La raccolta di record fuori dell’ordinario e di medaglie è simile ai tesori micenei o a quello di Totankhamon. 

Kersee – sul cui conto sono volati sospetti – ha consigliato la ragazza di dedicarsi, oltre ai 400H (qualcuno ha paragonato il 50”68 al 45”94 di Karsten Warholm e il parallelo non è peregrino), anche ai piani per centrare un’accoppiata unica (già ai Mondiali di Budapest?) e per portare l’attacco al mondiale di Marita Koch che da un paio di settimane ha raggiunto i 37 anni di durata. Se è vero che tra distanza piana e con barriere la differenza è due secondi, due secondi e due, Sydney può valere più o meno 48”40. Il record personale – 50”30 – ha poco senso. Più interessante prendere in considerazione il 47”91 in frazione, sul passo delle migliori frazioni della campionessa della DDR, capace di fregiarsi anche del record del mondo dei 200. 

L’accoppiata 400/400hs, centrata da Femke Bol nella dimensione più modesta degli Europei, fa parte di una di quelle utopie destinate a diventare realtà, come i 400/800 di Alberto Juantorena a Montreal 1976, come i 200/400 di Marie Josè Perec e di Michael Johnson ad Atlanta 1996. Quanto al record mondale del quarto di miglio, 47”60 il 6 ottobre 1985 al Bruce Stadium di Canberra, non c’è che da tuffarsi in un flashback e in una testimonianza personale e oculare. 

Dunque, Bruce Stadium, prima giornata della Coppa del Mondo portata da Primo Nebiolo nella capitale australiana, un non luogo molto riposante, molto silenzioso, in uno stadio con le sponde in erba, circondato da migliaia di eucalipti: il pubblico ha portato i cesti per il picnic. 

La 4x400 della DDR vince in 3’19”49 e Marita dà l’idea di correre molto forte l’ultima frazione. A occhio, 48”. Era 47”9. Tutto sommato, niente da stupirsi: l’anno prima, a Erfurt, record mondiale portato a 3’15”92, Marita era stata anche più veloce: 47”8. Tenebre rapide, improvvise. Canto stridulo, quasi beffardo, del Kookaburra. Lungo la strada che porta nel micro-centro occhieggiano famiglie di canguri. 

Stesso luogo, 6 ottobre, 14,11, ora zero. Colpo di pistola. Marita Koch va via rapida, con quella sua corsa che era un prodigio di studio, di tecnica. Wolfgang Maier, allenatore e più tardi marito, sostiene di averle preso 10”9 ai 100. Può darsi: Marita era capace di accensioni così rapide da permetterle di bruciare i tempi anche sui 60. Olga Vladykina prova a starle dietro ma ai 200, passati in 22”4, l’ambizione è frustrata. Meglio sfruttare la scia tracciata e lasciata dalla ragazza di Wismar, sul Baltico.

E qui arriva la partecipazione, emozionata e fisica, di chi sta guardando: Marita transita ai 300, il tabelloncino cubico piazzato in curva sta lasciando i 33”0 per transitare sui 34”0 ed è a quel punto che la signorina Koch “perde” un po’ le gambe, remiga, accusa, chiude come può, come può lei, Marita: 47”60. Il record mondiale di Jarmila Kratochvilova, 47”99 per conquistare il primo titolo mondiale in palio due anni prima a Helsinki, è demolito e spazzato nel tentativo – riuscito – di riappropriazione della corona, nell’imposizione del settimo sigillo: Marita aveva trovato posto per la prima volta nell’albo nel ’78, a 21 anni, con il 49”19 che in cinque successive tappe aveva portato a 48”16: erano gli Europei di Atene, quando aveva affibbiato sette decimi alla possente boema. 

E’ molto vero: chi assiste alla storia, difficilmente la coglie in tutta la sua portata. E’ necessario che i sedimenti del tempo si accumulino per capire sino in fondo, apprezzare, compiacersi di tanta fortuna. In quello stadio non scatta nessuna isteria: Marita offre un sorriso gentile, sventola un braccio, dice di esser molto felice di quel che ha fatto e non ha nessun rammarico per quel che ha lasciato sull’ultimo rettilineo. E’ molto felice anche Olga Vladykina, seconda in 48”27, terza di tutti i tempi in quel momento, quinta oggi: nel ’96, ad Atlanta, 48”25 di Marie Josè Perec; nel 2019, a Doha, 48”14 di Salwa Eid Naser, poco presente ai controlli a sorpresa.

Ancora lo stesso luogo, 13 ottobre 2003, fase a gironi della Coppa del Mondo di rugby: tornare al Bruce Stadium è commuoversi, ma le lacrime non arrivano, non possono arrivare. “Dov’è finita la pista?”. “Quale pista?”. “Quella dell’85, del record del mondo di Marita Koch”. “Qui giocano a rugby a XV e a XIII. L’atletica si fa altrove”. Sembra un libro di Kafka o un film di Hitchcock: tentano di farmi passare per matto. Ma non sono matto, cerco, fiuto, mi inginocchio e dove finisce il prato trovo una specie di piccola intercapedine e là sotto si intravvede un pezzo di gomma rossa. “La pista c’era: il problema è che gli anni sono passati e tutti l’hanno dimenticata”, mormora il mio nuovo amico, che si chiama Hook, proprio come Capitan Uncino. 

Un paio di giorni dopo, visita all’Australia Sport Institute, tentano di fregarmi ancora. Dopo il tour nei laboratori, nei centri di ricerca, nelle palestre, mi portano a visitare un impianto nel bosco, a un chilometro dal Bruce Stadium, e il cicerone dice: “Su questa pista una german lady stabilì un record del mondo”. “Quanti anni hai, ragazzo?” “Trenta, sir”. “E allora nell’85 ne avevi dodici. Dovresti ricordarti quel nome, quel record”. “Non so di quali gare stia parlando, sir”.

Forse non è un libro di Kafka, è solo un dolce racconto di Bradbury dove il filo della memoria deve essere recuperato, filato, riannodato. “Dunque, il 6 ottobre 1985, io ero là, sulla tribuna del Bruce Stadium e …” “Ma lei è già stato qui, sir? Davvero? Di solito qui non viene mai nessuno. Vanno a Sydney, ad Ayers Rock, che ora si chiama Uluru, ai Dodici Apostoli, ma qui … E’ strano. E tornarci, poi … Comunque, mi racconti di quel 6 ottobre”. 

E così è finita che gliel’ho raccontato e, come il pianista di Casablanca, continuo a raccontarla e quando mi rendo conto che, a palmi, è passato più di un terzo di secolo, mi viene voglia di andare a Rostock – lei correva per l’Empor – e fare una bella chiacchierata con Marita.

 

Cerca