- reset +

Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
“Il più colto uomo di sport”




Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





I sentieri di Cimbricus / Il sapore eccitante della vittoria

PDFPrintE-mail

Lunedì 2 Agosto 2021


tamberi-jacobs


Due delle gare simbolo dell’atletica e dello sport, comprese nel citius e nell’altius del motto olimpico, feudo di due azzurri diversi e diventati uno solo in quell’abbraccio subito dopo il traguardo. (Articolo pubblicato stamani sul Secolo XIX).

 

Giorgio Cimbrico

La gara è aperta. E’ stato il più grande giorno nella storia dello sport italiano? A domande così impegnative (quale è il quadro più bello, quale l’armonia suprema, etc etc) l’unica risposta sensata è: magnifico averlo vissuto e, prima, averlo atteso con un sonno agitato, con qualche tormento vibrato dal dubbio. E ora non rimane che provare a fare i conti, oltre che con la storia, con i ricordi di prima e di seconda mano, vissuti, raccontati, o libreschi. Oggi con un elemento in più: la luce, che in questo caso sarebbe bene scrivere con la maiuscola.

Perché lo sport può portare fasci forti, a volte violenti, dissipare le tenebre: illuminare è far gioire, ora più che mai, dopo un anno e mezzo di buio e di morte, di interrogativi che non si sono ancora sciolti, di rischi ancora in agguato, di vita che vuol tornare alla normalità.

Per chi è avanti con gli anni, un giorno così, perfetto, insperato nella sua pienezza, e così ancora più eccitante, arrivò il 3 settembre 1960. Ai Giochi di Roma, Livio Berruti corse e vinse la semifinale, uguagliando il record del mondo dei 200, lasciandosi alle spalle i tre che dividevano quel limite e poco più di un’ora dopo disegnò ancora una curva perfetta. Negli ultimi metri, avvertì il bump bump dei passi di Lester Carney, ma ormai era fatta: ancora davanti, ancora record del mondo. La foto di quell’arrivo si è trasformata in un quadro storico e il bianco e nero aggiunge un fascino non sottile. La più grande impresa di un atleta azzurro, l’ha definita qualcuno, provocando un vasto consenso. A questo punto sarebbe aggiungere: del XX secolo.

Oggi, in questa zona ancora incerta, lo sport ha creato e alimentato l’orgoglio, ha assicurato momenti di tensione e di allegria, ha scosso dall’apatia. Non è il caso di tuffarsi troppo indietro nel tempo: il fine settimana londinese di Matteo Berrettini a Wimbledon e, a Wembley, della Nazionale di Roberto Mancini (marchigiano come Gian Marco Tamberi), la dignità della sconfitta, il sapore della vittoria gustato dopo i passi nel delirio dei calci di rigore.

E ora, venti giorni dopo, ci troviamo di fronte a qualcosa di ancora più assoluto, consumato nello spazio breve di una manciata di minuti, un transito rapido dalla dimensione onirica alla realtà: due delle gare simbolo dell’atletica e dello sport, comprese nel citius e nell’altius del motto olimpico, diventate feudo di due azzurri diversi e diventati uno solo in quell’abbraccio subito dopo il traguardo.

Gian Marco Tamberi, da sempre seguito e plasmato dal padre Marco, che getta le braccia attorno a chi, Marcell Jacobs junior un padre non l’ha mai avuto e solo ora, dopo aver cercato e trovato l’equilibrio e la pace interiore, ha ripreso i contatti, per ora telefonici, prima o poi anche diretti e fisici, con Marcell Jacobs senior, ex-militare oggi residente a Miami.

Gimbo, non più mezza barba, non più Legolas (l’arciere elfico del Signore degli Anelli) aveva appena stretto un rapido patto di non aggressione con Mutaz Essa Barshim, il qatarino leggero come l’aria. Sono amici e non era il caso di sbranarsi in uno spareggio dalle strane e crudeli modalità.

E poco dopo Marcell, dal corpo illustrato come il personaggio di un racconto di Ray Bradury, riesce nell’impresa di non far tremare chi attendeva quei pochi secondi sfida: toccata la boa dei 60 metri sprigiona il suo picco a 43 all’ora e tiene a bada Fred Kerley, una specie di compaesano: Marcell, gardesano per parte di mamma Viviana, è nato a El Paso, Fred a San Antonio. Texani, ma divisi da un oceano e da quattro centesimi.

Sopraffatto dalla commozione per l’ultimo balzo in fondo a un cammino iniziato con un calvario, Gimbo ha pianto, ha quasi delirato prima di riassumere l’atteggiamento degno del capitano; Marcell, il più veloce vincitore di una finale olimpica, a parte i vortici pechinesi e londinesi suscitati da Usain Bolt, ha accolto la vittoria con il volto disteso di chi sta percorrendo un cammino, al fianco di Paolo Camossi, capace di intuire le potenzialità di Marcell, come Sam Mussabini intuì quelle di Harold Abrahams (uno dei pochi europei a vincere i 100 dell’Olimpiade), vibrando un deciso colpo di timone: non più il lungo ma la ricerca della velocità (e della calligrafia) frutto di un lavoro tecnico profondo. Velocità, capacità di staccarsi dal suolo, elevarsi sono le doti di base. il resto è lavoro, studio, equilibrio mentale.

L’atletica di Simeoni-Mennea, lontana quarant’anni, è l’etichetta appiccicata su un periodo storico molto generoso. Ora è l’atletica di Jacobs-Tamberi. Scomodando vecchi miti greci, i Prometei che hanno regalato la luce a se stessi e a chi può godere dei raggi di speranza che da loro giungono. Dopo ieri e grazie a loro sarà sempre più difficile chiedere a che punto è la notte.

 

Cerca