I sentieri di Cimbricus / Addio alla nostra giovinezza
Sabato 16 Febbraio 2019
Per un gioco del Fato (non del Destino, che non esiste) se ne sono andati a poche ore l'uno dall'altro. Erano inglesi della working class: Finney di Salford, Lancashire; Banks delle Midlands.
Giorgio Cimbrico
In un centinaio di ore siamo stati costretti a liquidare un’irripetibile e amata fetta della nostra adolescenza: venerdì è morto Albert Finney, martedì Gordon Banks. Quando al cinema arrivò “Tom Jones” di Tony Richardson avevo dodici anni, quando l’Inghilterra diventò campione del mondo ne avevo quindici. Nell’interminabile e magnifico “coccodrillo” del Guardian c’è un piccolo passaggio che ho invidiato all’anonimo autore: Finney “aveva il volto di un unmarked boxer”, di un pugile non segnato. Gli zigomi alt, l’espressione sparsa di ironia facevano il resto.
Albert studiava recitazione con Tom Courtenay e con Peter O’Toole mentre Banks iniziava il suo apprendistato con il Leicester: sul cinema e sul teatro britannici stava per abbattersi l’era e l’onda degli arrabbiati e il calcio viveva la sua dimensione rustica di spogliatoi microscopici, di apprendisti che lucidavano e scarpe ai titolari, di stipendi molto normali, di biglietti a quattro soldi per un pubblico proletario che stava in piedi sotto la pioggia nelle terraces scoperte.
Erano inglesi della working class: Finney di Salford, Lancashire; Banks delle Midlands. Il primo a conoscere i palcoscenici importanti fu Albert che finì in compagnia con l’ineguagliabile Charles Laughton (poteva essere, con la verosimiglianza e l’istrioneria propria dei grandi, un tribuno della plebe e un avvocato pratico dei meandri giuridici dell’Old Bailey), recitò all’Old Vic e al festival shakespeariano di Stratford come Jago e come Troilo e a 22 anni sostituì nel Coriolano, così caro a Brecht, un indisposto Laurence Olivier. Il cinema lo tentava, il teatro lo calamitava. Avrebbe potuto essere il volto di Lawrence d’Arabia ma la sua esitazione spedì per la prima volta sullo schermo il volto angosciato dell’irlandese O’Toole.
Banks, detto il cinese per quei suoi occhi allungati, era entrato a far parte dei Ramsey’s Boys,, aveva esordito in maglione giallo nell’incontro internazionale più importante per un inglese, il match contro la Scozia, e si avvicinava al crocevia che secondo Alf il condottiero doveva diventare una svolta: la Coppa del Mondo (ancora Rimet) da giocare nel paese che aveva inventato il calcio.
Alla finale del 30 luglio 1966, nel vecchio Wembley, quello dei soliti 100.000, Gordon arrivò con un solo gol incassato, un rigore di Eusebio. Nei 90’ regolamentari ne prese due: un tiro preciso di Helmut Haller, un disperato tocco in mischia del difensore Wolfgang Weber. Nei supplementari la faccenda venne sistemata da Geoff Hurst con il gol-non-gol e con una botta da lontano mentre il 120’ stava scoccando. La Regina aveva 40 anni e portava un leggero soprabito giallo.
Quattro anni dopo, mentre Albert recitava e cantava nel dickensiano Scrooge, Gordon diventava l’uomo di Great Save, della Grande Parata, della parata del XX secolo. Quel giorno, il 7 giugno 1970, a Guadalajara, era in blu, non in giallo. Cross perfetto di Jairzinho, elevazione altrettanto perfetta di Pelè che di testa picchiava duro sulla palla come se colpisse di collo, Gordon che si arrampica nell’aria e mette sopra la traversa, con la punta delle dita. Quel che avvenne subito dopo, è diventato un territorio leggendario. La frase: “Stai diventando vecchio, Banksy, una volta quella palla l’avresti bloccata”, è stata attribuita a Bobby Moore, il primo ad andarsene dei cavalieri del sogno, e a Allan Mullery. Di non leggendario c’è la risposta di Gordon che mandò all’inferno – o peggio – chi aveva provato a fare dell’umorismo.
“Pelè si avvicinò, mi diede una pacca sulla spalla e mi disse: sai, credevo di aver segnato. Non eri mica il solo, risposi io”. O Rei si sarebbe rifatto in finale: un’altra martellata di testa mentre gli azzurri stavano cambiando le marcature e Tarcisio Burgnich non aveva ancora preso misura e posizione su quel diavolo gentile. Nel frattempo Banks era stato fregato dalla maledizione di Moctezuma (troppe corse verso il wc) e per i quarti, una settimana dopo, a Leon, era stato costretto a lasciare il posto a un disastroso Peter Bonetti: avanti 2-0 sino al 68’ (Mullery e Peters), gli inglesi non avevano retto al serrate dei tedeschi che con Franz Beckenbauer, Uwe Seeler e Gerd Muller, l’implacabile dal baricentro basso, avevano in parte saldato il conto di quattro anni prima, con il pieno contributo del portiere di origine ticinese.
Mentre Banks, che dopo un incidente stradale perse la vista dall’occhio destro, spariva dalla scena, Finney continuava a tenerla on apparizioni che richiamavano i suoi fedeli, ammaliati come dal pifferaio di Hamelin: l’ineguagliabile Poirot di Assassinio sull’Orient Express (Kenneth Branagh ha provato ed è stato bravo, ma Albert era un’altra cosa), l’avvocato alcolizzato di Sotto il Vulcano dal capolavoro di Lowry, il principale burbero e generoso di Julia Roberts in Erin Brokovich, il cameo del vecchio guardiacaccia in Skyfall, dove ritrovò un’altra vecchia compagna di teatro, Judi Dench.
Il caso (non il destino, che non esiste) ha voluto che se ne andassero uno dopo l’altro, chiudendo una stagione di interpretazioni e di parate più belle di quanto le immagini possano offrire. Nel ricordo, tutto è meglio.
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