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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

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I sentieri di Cimbricus / Verso un mondo da "Truman Show"

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Mercoledì 18 Aprile 2018

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Il prodotto finale è la violenza, caso per caso insegnata, inculcata, suggerita. Come dovere patriottico, come necessità.

di Giorgio Cimbrico

Il monologo del sergente Hartman è un fiume di oscenità, un empio diluvio, la più implacabile delle metafore sul potere, sul condizionamento portato con la ferocia. In morte di Ronald Lee Ermey, il telegiornale di Sky non ha mandato in onda neppure una piccola parte di quel monologo, ma un’innocua scena in cui la parola più azzardata era “culo”. Per fortuna nessuno ha inserito il bip che, abitualmente, copre quel che può offendere la sensibilità del pubblico. Il pubblico, come è risaputo, è molto sensibile.

Ermey-Hartman era quella scena iniziale, in una camerata immacolata, dal pavimento in linoleum rosso di specchiata pulizia, era quella voce che non lasciava scampo, era quei concetti solidi, incontrovertibili, esposti senza remore (“sei brutto come un capolavoro di arte moderna”, … “ti motiverò a costo di accorciare il cazzo a tutti i cannibali del Congo”, “qui non si fa differenza tra negri, ebrei, italiani, messicani”), era il significato del film di Kubrick, che ha sempre destato timore tra chi monta la guardia ai cervelli della massa: per vent’anni “Orizzonti di gloria” venne proibito in Francia, e nel Regno Unito si organizzavano visioni private di “Arancia Meccanica” con copie importate clandestinamente dal Continente.

In “Full Metal Jacket” il monologo di Hartman equivale, in “Giulio Cesare”, all’insinuante retorica di Marco Antonio e, in “Enrico V”, all’orazione del re prima della battaglia di Agincourt, all’apparenza un inno alla fratellanza, all’amicizia. Il prodotto finale è la violenza, caso per caso insegnata, inculcata, suggerita. Come dovere patriottico, come vendetta, come necessità.

Ipocrisia, censura: in un mondo sempre più abitato da lotofagi, pochi avvertono di venir privati di spazi, di immagini o, quando le trovano davanti agli occhi, fingono imbarazzi, emettono risolini, si sdegnano. Uno degli esempi più citati è “L’origine del mondo” di Gustave Courbet, una sontuosa vagina contornata da cespuglioso pelo pubico. Dipinta nel 1866.

Su Internet, in compenso, è possibile inneggiare al Fuhrer, adescare minorenni, proclamare che l’anoressia è bella e trovare proseliti, lanciare guerre sante, affermare la superiorità della razza bianca, indulgere in territori tra il grossolano e il volgare, perdere la dignità, l’intelligenza, la libertà di scelta, la capacità di analisi, finire in un lager e in gulag solo all’apparenza senza filo spinato.

Una volta si sentiva dire: avanti così e finiremo in 1984. Previsione troppo alta. Oggi il mondo è governato da Christo, il regista-demiurgo di “Truman Show”. Lui decide ciò che è osceno, edificante, conveniente, improponibile, gradito, sgradito; decide il linguaggio da usare, sempre più uniformato, sempre più povero; decide i gusti, decide le visite allo shopping center, i Black Friday; decide la democrazia e la dittatura, se c’è ancora differenza tra l’una e l’altra; decide la guerra locale e l’astrazione della pace; decide che possiamo essere buoni se versiamo 9 euro al mese per i bambini africani che hanno fame e non hanno medicinali; decide che dobbiamo scommettere e che non c’è più posto per il vecchio amico che ti dava il cavallo buono.

Decide che le farse più volgari vanno bene, ma “Qualcuno volò sul nido del cuculo” no. E questo è per ricordare Milos Forman che n’è andato da poco lasciandoci l’altra grande e spietata rappresentazione del potere, della pietà (che prende le sembianze di un’affettuosa eutanasia), della possibilità di abbattere le sbarre della prigione dentro cui tentano di rinchiuderci. C’è chi china il capo, chi dice parole vuote, chi non si rassegna, come gli uomini-libro che il pompiere ribelle trova nel bosco, lontano dalla città dove i segugi meccanici, nella notte, vanno a caccia di carta stampata.

 

 

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