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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
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Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
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Italian Graffiti / (1) Il cappellaio (savio) che invento' il calcio in Italia

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Luned' 26 Marzo 2018

fiat 2

Cade oggi il 120° anniversario della nascita della Federazione Italiana del Football. Vediamo come tutto ebbe inizio.

di Gianfranco Colasante

PRIMA PARTE

Questo è il quadro con cui il pittore biellese Lorenzo Delleani celebrò l'atto costitutivo della FIAT, avvenuto nel luglio 1899 nel palazzo del nobiluomo Emanuele Bricheraso (al centro, nell'atto di firmare). Perchè questa scelta? Per motivi diversi. Il primo, perchè illustra in pieno le atmosfere della prima età dello sviluppo della nazione, l'era giolittiana che, protrattasi fino alla Grande Guerra, per dinamismo e innovazione trova il solo paragone nel cosiddetto "miracolo economico" del secondo dopoguerra. Il secondo, perchè all'estrema destra è ritratto il nobiluomo Giuseppe Alfonso Ferrero de Goubernatis Ventimiglia, all'epoca non ancora ventottenne. Un nome che si pone all'origine della Federazione Italiana del Football che venne "definitivamente costituita" nel pomeriggio del 26 marzo 1898 in via Magenta, nella sede della Ginnastica Torino, la più antica società italiana, fondata in epoca albertina, sin dal 1844.

Sull'origine della federcalcio c'è sempre stata un po' di confusione, nelle date, nei protagonisti, soprattutto sull'ambiente che la promosse e le fece da cornice. In quegli anni muoveva i primi passi la prima industrializzazione del Paese che trovava la sua collocazione nel triangolo Torino, Milano, Genova. Metallurgia, meccanica, chimica, i settori più dinamici, ma erano già attivi gli altiforni del centro Italia. Dopo la Fiat, erano nati l'Alfa Romeo (1907), l'Olivetti (1908), la Lancia e la Montecatini (1910). La rete ferroviaria raggiungeva i 18.000 chilometri. Tra fine Ottocento e gli anni Dieci il prodotto interno lordo era salito quasi del 20%.

Come conseguenza calava l'analfabetismo, sceso in pochi anni dal 50% al 38%, aumentavano del 40% i salari e, di conseguenza, il potere di acquisto anche delle classi meno abbienti, cresceva l'attesa di vita che alla vigilia della guerra cresceva e si attestava attorno ai 47 anni (oggi è quasi raddoppiata). Come rovescio della medaglia, persisteva il grande salasso dell'emigrazione: nei primi 15 anni del Secolo XX, su una popolazione di poco più di 35 milioni di abitanti, in media ogni anno "passavano il mare" non meno di 600.000 italiani.

La FIF, questo l'acronimo, fu la quinta federazione a nascere nell'Ottocento. L'avevano preceduta la Ginnastica (1869), il Tiro a segno (1882), il Ciclismo (1885) e il Canottaggio (1888). Nel nuovo secolo arriveranno le altre, prime tra loro la Lotta (1902) e l'Atletica (1906). Il calcio, o meglio il foot-ball, col trattino come scrivevano i giornali, aveva fatto da sua timida comparsa da noi negli anni Ottanta dell'Ottocento. Su quegli incerti inizi abbiamo solo aneddoti e improbabili leggende, ripetute all'infinito col pregio del "copia-e-incolla".

Tra aneddoti e leggende

Proprio un aneddoto, secondo quanto ha scritto D'Annunzio, riferisce che il futuro Vate sacrificasse due denti giuocando a Francavilla con una “palla di ottimo cuoio, con camera d'aria inglese”, dono originale che Francesco Paolo Tosti dli aveva portato in regalo da Londra. Si era nel 1887.

La leggenda – e come tale riproposta con costante monotonia in carenza di riflessioni originali – è precedente: attribuisce a uno sportman torinese d'origine elvetica con la passione del canottaggio, Edoardo Bosio, l'etichetta di solitario pioniere del calcio in Italia. Si ripete che il giovanotto, operando per una ditta di tessuti di Nottingham, avrebbe avuto modo di frequentare gli ambienti calcistici britannici che già intorno al 1880 s'erano dati una struttura professionistica. Tornato in Italia portandosi appresso alcuni palloni e qualche scarpa bullonata, aveva preso a giocare in compagnia di stranieri residenti e fatto proseliti tra i cittadini della Mole, la città più sensibile ai richiami degli sport che venivano d'oltralpe. Dando vita a un club che, proprio per le sue caratteristiche rivolte all'estero, si volle chiamare "Internazionale".

Quel primo nucleo formatosi attorno a Bosio, – a voler dar sempre credito ad una tradizione che la ricerca storica non riesce a suffragare con elementi meno approssimativi, vista l'assoluta assenza di documenti –, s’intersecò, o si scontrò, con un secondo gruppetto di appassionati, capeggiati dal nostro giovane marchese Alfonso Ferrero di Ventimiglia e, secondo altri – ma questa è versione più fantasiosa –, dal Duca degli Abruzzi, per vero all'epoca più tentato da perigliose scoperte geografiche che da trastulli da cortile.


Per restare a dati certi, partiamo allora dal settembre del 1893 quando, per iniziativa d'un gruppo di inglesi, s'era costituito il "Genoa Cricket and Athletic Club" che quattro anni più tardi, con l'arrivo sotto la Lanterna del medico James Richardson Spensley, optò definitivamente per il football. L'anno prima, da una costola della "Internazionale", era nato il "Football Club Torinese" dei nobili fratelli De Fernex e del suddito britannico Gordon Savage. Quelle due squadre, dico "Genoa" e "Torinese", il 6 gennaio del 1898, sulla spianata irregolare di Ponte Carrega, di fianco al capriccioso Bisagno, celebrarono l’arrivo della Befana giocando la prima vera partita tra squadre italiane di due città diverse: i genovesi in camicia bianca, i torinesi nella loro camicia a strisce verticali giallo/arancio e nere (le maglie, nel giuoco, sarebbe state introdotte un po' più tardi).

Ferrero di Ventimiglia, primo cronista del football

La pignoleria dei nostri padri ci permette oggi di ricordare che a quell'incontro assistettero 292 spettatori, 208 dei quali paganti (84 con diritto alla sedia il cui affitto costava una lira e 23 con biglietto a metà prezzo) mentre un'ottantina vi assistettero da “portoghesi”, percentuale più o meno rimasta invariata anche ai giorni nostri. L'incasso fruttò 284,50 lire delle quali 8 se ne andarono per la "tassa spettacoli", 35 per i manifesti e 25 per il taglio dell'erba. Il totale delle spese fu di 220,05 lire, la differenza fornì un attivo di non disprezzabili 64,45 lire.


Ma c'è stato tramandato di più. Va detto subito che la squadra torinese, giunta a Genova con soli dieci giocatori, poiché due dei "convocati" avevano perso il treno, per poter assolvere l'impegno avevano dovuto chiedere agli avversari il prestito di un attaccante. I piemontesi – accompagnati da un personaggio che molto si andava adoperando in quegli anni per la diffusione del football a Torino e dintorni, Adolfo Jourdan, di professione cappellaio – erano partiti da Porta Nuova col diretto delle 8,50. Appena in tempo per cambiarsi alla meglio e scendere in campo. Dopo l'incontro, un amichevole rinfresco e via di corsa in stazione per prendere il treno del ritorno a casa, il diretto delle 22,40.

Di quella partita un colorito resoconto l'ha lasciato uno dei giocatori più in vista, proprio il marchese di Ventimiglia, cui va giustamente il titolo di primo cronista del football nostrano. Il nobiluomo, come vicepresidente del "FC Torinese" s'era fatto le ossa calcistiche organizzando in Piazza d'Armi interminabili incontri di pallone che contrapponevano disarmati studenti torinesi a più maturi e smaliziati residenti inglesi.

Nel gustoso articolo di Ferrero, non privo di qualche ardita escursione tattica e che molto chiarisce del football dei nostri nonni, si leggevano frasi del tipo:

"La partita disputata a Ponte Carrega (Genova) tra il team misto di Torino e quello del Genoa Cricket & Athletic Club, merita un po' di cronaca particolareggiata perché crediamo di non fallire dicendo che fu la migliore che si abbia avuto dopo il risveglio della 'palla al calcio' in Italia.

"La squadra torinese era formata di elementi buoni, sì, ma con la maggior parte non anziani del giuoco; l'allenamento di essa era però stato ben preparato e l'affiatamento sufficiente.

"La squadra genovese era composta esclusivamente - o quasi - di inglesi. Tutti giovani robustissimi, anziani e pratici del giuoco, ma forse meno abituati che i loro avversari a giuocare insieme.

"Dato il calcio d'invio da questo partito [sic!], i forwards torinesi si impossessano immediatamente della palla e con molta destrezza, senza trovare quasi resistenza, fanno subito un goal.

E ancora:

"I primi torinesi, abituati ad un campo di grandezza regolamentare (quasi doppio del prato di Ponte Carrega) hanno tutto il giuoco paralizzato. Onde il Savage (capitano dei torinesi) che di questa linea faceva parte, con molto accorgimento passa ad ajutare la sua difesa. Ajuto valentissimo per l'instancabile Dobbie, pel Montù, e specialmente pel Beaton (custode), che con singolare energia ricacciano la palla, mentre gli half-backs Nasi, Ferrero e Stevens marcano gli uomini avversari.

"Al capitano Savage è dovuta in buona parte l'esito della partita. Tutti però si fanno onore, il Bosio, il Franz, il Beltrami e gli altri.

Concluso l'incontro, arbitrato come detto da Jourdan, con la vittoria (1-0) del torinesi, tutti si ritrovarono a tavola per un "sontuoso pranzo".

"Lo presiedeva il console inglese Mr. Keen che aveva alla sua destra il marchese Ferrero ed alla sinistra il gentilissimo Mr. Fawcus. Allo champagne il console di S.M. britannica brindò agli ospiti con parole gentilissime, e gli rispose il marchese Ferrero, augurandosi di veder presto a Torino i footballers genovesi, per riprendersi quegli allori che molto umilmente avevano raccolto poche ore prima i torinesi."

Forse fu proprio in quella fredda serata della Befana, mentre si spartivano l'incasso e levavano i calici, che i dirigenti dei due club "avanzarono il progetto di coordinare l'attività calcistica in un ente che curasse il rispetto dei regolamenti e l'incolumità degli arbitri".

E così avvenne: dopo qualche settimana, intorno a metà marzo del 1898, si riunì, sempre in via Magenta, il comitato di studio presieduto da un “personaggio di primo piano della Torino liberale di fine secolo”, l'anziano cattedratico don Enrico D'Ovidio, vicepresidente della "Ginnastica" e soprattutto massimo esperto italiano del calcolo binario.
Ma per fortuna, di quel gruppo faceva parte Adolfo Jourdan, il cappellano (savio) cui il calcio italiano deve il suo atto di nascita.

Che le cose siano andate proprio così, può non essere del tutto vero, ma ci piace crederlo. Lo vederemo nel dettaglio nella prossima puntata.

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PS. Queste note sono liberamente tratte, e sunteggiate, dal mio libro sulle origini del calcio italiano tra l'Ottocento e la Grande Guerra.

 

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