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I sentieri di Cimbricus / Black Britannia: "Dio mio, ma sono nero?"

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Martedì 31 Ottobre 2017

rashford 2

di Giorgio Cimbrico

Quando, meno di quarant’anni fa, Viv Anderson debuttò nella nazionale di calcio che ebbe la meglio sulla Cecoslovacchia, l’esordio del difensore del Nottingham Forest ebbe una certa eco: per la prima volta un giocatore di colore (a quel tempo si diceva così e nessuno gridava allo scandalo) vestiva la maglia con i tre leoni. Oggi la situazione è la seguente: Lewis Hamilton, nonno di Grenada, isola appena a nord di Barbados, è per la quarta volta campione del mondo di F1; Anthony Joshua, nigeriano che ha visto la luce a Watford, è campione del mondo dei massimi per due sigle e aspira legittimamente alla riunificazione del titolo; Maro Itojie, londinese dalle solide radici nigeriane, seconda e terza linea, sarà molto presto capitano della nazionale di rugby.

Mohamed Farah, somalo di Mogadiscio, trapiantato da ragazzino in Inghilterra, ha dominato dal 2011 ai giorni nostri la scena dei 5000 e dei 10.000 collezionando dieci titoli mondiali e olimpici e ora punta alla maratona di Tokyo 2020; Marcus Rashford (nella foto d'apertura), originario della cintura di Manchester, con famigliari provenienti dalle Indie Occidentali, a vent’anni appena tagliati è il più completo degli attaccanti a disposizione di José Mourinho, nello United, e di Gareth Southgate, in Nazionale. La più scontata delle etichette da apporre su questo stato delle cose è Black Britannia.

Questo fresco repertorio può essere aggiornato, pescando nel tempo andato, con Nasser Hussain, nato a Madras, per quattro anni, nel passaggio tra il XX e il XXI secolo, capitano dell’Inghilterra di cricket, con le campionesse olimpiche e mondiali di eptathlon Denise Lewis e Jessica Ennis, con la quattrocentista Christina Ohuruogu, con la doppiettista 800-1500 a Atene 2004 Kelly Holmes: un ritratto di Dame Kelly, di almeno un metro per lato, è appeso alle pareti della National Portrait Gallery. Denise proviene da una famiglia giamaicana, Jessica e Kelly da matrimoni misti, nei loro casi anglo-giamaicani.

Dall’incontro tra un nigeriano e una scozzese, il mondo ebbe in dono Francis Morgan “Daley” Thompson, due volte oro olimpico nel decathlon e raffinato umorista. “Dio mio, ma sono nero?” esibì finta sorpresa quando qualcuno gli fece notare che non era frequente che un afro-britannico si recasse a Buckingham Palace per ricevere un cavalierato.

Con Thompson il flashback si è spinto sino agli inizi degli anni Ottanta, una data, un punto di riferimento dal quale l’approdo di atleti nati nelle Indie Occidentali e in Africa, o da famiglie di quei luoghi emigrate in Inghilterra nel periodo della decolonizzazione (o della liquidazione dell’Impero), diventa sempre più massiccio e investe lo sport di alto livello. Un quarto di secolo fa Barcellona fu l’Olimpiade di Linford Christie, il nonno del vento, e del doloroso, impavido giro di pista di Derek Redmond e da quel momento, 100, 200, 400, 110hs (anche il Galles ha avuto la sua perla nera, Colin Jackson), staffetta veloce del miglio hanno mostrato sempre più i connotati di un paese che ha retto immigrazione e integrazione, che ha avuto la meglio su razzismo strisciante, esclusioni, stereotipi.

E l’ultima generazione sta fornendo un nuovo scenario di mutazione sociale: Itoje ha studiato in una delle più esclusive scuole preparatorie, Harrow, e ora sta inseguendo una laurea in studi africani all’Istituto universitario di Bloomsbury, la bella eptathleta Morgan Lake si sta specializzando in letteratura vittoriana, la velocista Dina Asher Smith è iscritta alla facoltà di storia della London University e lo sprinter da meno 10” Chijindu Ujah è studente di scienze alla Middlesex University.

Gli esempi e i risultati sono più forti e eloquenti di qualsiasi morale, di qualsiasi parallelo da proporre con un altro paese.
 

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