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I sentieri di Cimbricus / Ayers Rock: espiazione o ipocrisia

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Martedì 24 Ottobre 2017

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di Giorgio Cimbrico

Il sentiero dell’espiazione incrocia spesso quello dell’ipocrisia. Oggi, è sufficiente dare un’occhiata alla maglia indossata dagli australiani per il terzo incontro di Bledisloe Cup con gli All Blacks: motivi ornamentali aborigeni, da Vie dei Canti, e sulle maniche, da una parte la bandiera dei nativi e dall’altra quella degli abitanti dello stretto di Torres, nell’estremo nordest. Da niente a troppo. Nel ’94 Cathy Freeman, campionessa aborigena (e in possesso di un cocktail di sangue che comprendeva ascendenze siriane cinesi e irlandesi) e in questo ruolo erede di Evonne Goolagong che alzò il piatto a Wimbledon, sventolò la bandiera rossa, nera e con un abbacinante sole nascente dopo aver vinto a Victoria, Canada, i 400 del Giochi del Commonwealth.

Il gesto non fu ben accolto dai dirigenti aussie, così come tre anni dopo, quando Cathy, originaria di Mackay, Queensland, concesse il bis dopo esser diventata campionessa del mondo ad Atene. Era l’estate del ’97, i Giochi di Sydney si stavano avvicinando e qualcuno dotato del potere politico della persuasione capì che quella ragazza, quel gesto, quella bandiera potevano risultare importanti per soffiare sull’Olimpiade l’aria della riconciliazione.

E così Cathy divenne la creatura dell’acqua e del fuoco, ebbe l’ultima fiaccola, aprì i Giochi e la sera del suo trionfo, faticato oltre il prevsto, erano in 112.524 ad applaudire questo edificante trionfo che finalmente riuniva il grande popolo bianco e forte e il piccolo popolo scuro e saggio, che finalmente cancellava pagine oscure, lontane, non famose come le mattanze americane.

L’Australia non ha avuto le stragi di Washita River, di Wounded Knee, né conosciuto il genocidio sistematico – per fame procurata, per malattie mortali  che da una costa all’altra dell’America causò la sparizione di intere tribù e portò le più famose, fiorenti e magnifiche, quelle delle grandi pianure, a un’esistenza drammatica o squallidamente grama. Gli aborigeni erano pochi, campavano di niente, individuando una vena d’acqua, procurandosi un po’ di carne dal loro bisonte saltatore, il canguro.

Ma più che la violenza e la brutalità di coloni rozzi (ci sono state l’una e l’altra in una scala minore rispetto a quella americana proprio per la modestia numerica della popolazione), hanno conosciuto la subdola “politica del ratto”: i bambini strappati alle famiglie, affidati a bianchi e a comunità bianche, allevati nella fede cristiana, sradicati dalla dimensione incantata e poetica dei loro avi: la natura, le forze che vi abitavano, erano magia e visione che calavano nella realtà dei luoghi, nella vita vissuta come un pellegrinaggio. Furono i bambini della Generazione Rubata. E, accanto gli uomini e le donne delle possibilità negate: il padre di Cathy, giocatore di rugby league, ebbe un’offerta per andare a giocare in Inghilterra, ma non si poteva partire senza il passaporto e gli aborigeni non ne avevano diritto.

Ora, in Australia, non domandate più indicazioni per andare a Ayers Rock: quel prodigioso monumento di arenaria che cambia colore ad ogni mutazione della luce, dopo anni di doppia denominazione, è Uluru e basta, luogo sacro, come erano le Black Hills, nel Dakota per il popolo di Sioux.

Chi ha avuto la meglio, prova vergogna o pensa che certi gesti abbiano il loro effetto, e così concede nomi, segni, usi che un tempo erano impensabili, proibiti, per confondere vecchie tracce che imbarazzano, che devono finire nell'archivio senza più una chiave per aprirlo. Ora, prima delle pertite dei Wallabies (lontanissimi eredi dei "convicted" irlandesi e della classe dirigente inglese, con una sempre più forte immissione di fijiani e tongani, e con l'aborigeno Kurtley Beale a rendere completo il mosaico), vecchi nativi dai capelli bianchissimi - in giacca e cravatta e non nudi come bachi come i loro avi - rivolgono al pubblico un messaggio per esprimere il senso di armonie ritrovate. O reinventate. Il passato ha un pregio: non si smacchia facilmente.
 

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