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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

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I sentieri di Cimbricus / Isteria, il tuo nome e' sport

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Domenica 3 Settembre 2017

fognini

di Giorgio Cimbrico

Isteria, il tuo nome è sport, direbbe oggi Amleto se gli capitasse, lasciato Elsinore per un pomeriggio, di andare a una partita, a un incontro, o, senza lasciare il castello avito, trasformarsi in telespettatore. Urlano, imprecano, si eccitano e sovraeccitano, sfiorano il collasso e l’ictus, tutti, quelli che corrono, quelli che inseguono palle di varia grandezza, e molto spesso anche quelli che commentano, che sono anche i primi a non fornire mai la loro opinione, obbligati a battere sulla grancassa. Ogni tanto a deprecare o a precisare che se gli è scappato il termine aggressività, è sportivamente parlando.

A questo punto, credo che sarebbe abbastanza scemo, inutile, sterile, aprire un dibattito se sia più grave che due o più giocatori (di rugby, di calcio, di basket) si accapiglino perché hanno sentito bruciare la pelle o che un giocatore privo da sempre di gesti bianchi (Fabio Fognini) gridi troia e bocchinara alla giudice di sedia.

Primo: non ci si accapiglia più come una volta. Nel senso che se c’era bisogno di un diretto, partiva il diretto (quel buonanima di Colin Meads, scomparso da poco, fornì un luminoso esempio), non quelle strattonatine o quei tentativi-carogna di ficcare le dita negli occhi. Secondo: non risulta che i Moschettieri o Big Bill Tilden o Laver si siano mai lanciati in un repertorio del genere. McEnroe campa ancora di rendita per un ”non puoi essere serio”.

Lo sport si è deteriorato. Ma ditemi voi cosa non si è deteriorato. Quando il direttore di questa rivista mi ha detto scrivi, scrivi, mi sono detto: è l’occasione di riesumare immagini belle come quelle che Robert Capa fissava in biancoenero. Vecchi Lions che cantano in lontane parrocchie neozelandesi, giocatori che mischiati alla folla vanno verso l’Arms Park di Cardiff stringendo una valigetta di fibra, atleti che arruffano i capelli di ragazzini che li guardano ammirati mentre, seduti sul cordolo, stringono bene i lacci delle scarpette.

Il mondo che è stato era diverso, era semplice, diretto come il pugno di Meads, serio come il viso di Bikila, illuminato come il volto di Marjorie Jackson, E oggi è facile dire che era un sogno. Può darsi (sogno comincia a stami un po’ sulle palle), ma di sicuro quella parola è stata sostituita da un’altra che, in italiano, ha tre lettere in comune: soldo. E così è morta l’ingenuità, la spontaneità e anche la libertà, e così mi viene in mente il finale di "Cronache Marziane" quando Ray Bradbury racconta del pianeta che aveva perso i suoi sognatori, i suoi stravaganti, i suoi bislacchi esploratori per far spazio ai profittatori.

E tutto quel che ci ritroviamo alle spalle e davanti agli occhi è proprio questo: una Cronaca Marziana di mutamenti che hanno finito per trasformarsi in mutazioni, in una cancellazione programmata della coscienza. Capita a chi è anziano di svegliarsi di notte e pensare: da un po’ di tempo capita anche a me. Ieri pensavo a quel che avrei potuto scrivere per GFC e mi è venuta addosso un’onda e mi sono fatto cullare: noi, tra i 60 e i 70 e oltre, abbiamo avuto fortuna. O culo.

Abbiamo vissuto gli anni in cui era possibile girare "Arancia Meccanica" e "Full Metal Jacket", concepire e organizzare un’eleganza stretta al rigore che finì sotto il titolo di "Momenti di Gloria", ascoltare Mahalia Jackson che cantava "We shall overcome" in memoria di uno dei tanti morti ammazzati, il reverendo King, avere ancora nell’occhio limpido della mente, nitido, il maggio dell’atletica che venne in ottobre, come una rivoluzione. Non manca molto al mezzo secolo e quei volti sono ancora lì: Beamon e Hemery, Hines e Tommie Smith, Evans che è malandato e Fosbury, Saneyev e Carlos. Sarà bene, nei mesi che verranno, parlarne ancora una volta con Roberto Frinolli, Eddy Ottoz, Beppe Gentile. Erano lassù, beati loro.

Con tutto questo bagaglio di ricordi (un sacco di gas esilarante, non gravoso da portare), non resta che provare a sopravvivere, tirare avanti in questo mondo ipocrita, inamidato, vano, vuoto dove non è prudente dire che qualche giorno fa Darrell Hill è diventato il pesista nero più forte della storia, o che Filippo Tortu può diventare la speranza bianca. E, se è per questo, non è consentito fare commenti sulle silhouette, come fece Paolino Rosi quando notò che “il pilone dell’Inghilterra era leggermente appesantito”. Nel senso che la maglia, al tempo di cotone, stava cedendo sotto la pressione di quel ventre da birra.

Ora, dappertutto, puzza di convenienza, sete di guadagno, rabbia statica che i nuovi mezzi a disposizione possono convogliare in un attimo, in furibonde e rapidissime crociate lanciate da chi non ha nulla da  pensare, nulla alle spalle, nulla in testa.

Un grande poeta, Wystan Auden, scrisse: “La verità, vi prego, sull’amore”. Non ce n’è più, finito, esaurito. Chi ne ha conservato un po’, è ricchissimo.  

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