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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
“Il più colto uomo di sport”




Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





I sentieri di Cimbricus / Uno splendido futuro dietro le spalle

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Giovedì 27 Luglio 2017

davis-kaufmann 2

di Giorgio Cimbrico


Sono stato costretto da un’ingenuità – probabile confini con la stupidità – a giungere a un’età ormai avanzata per accorgermi che le visioni apollinee o dionisiache che sono stati parte integrante della mia formazione, di amici che avevo al fianco o di altri trovati durante la strada, non fanno più parte dello scenario, non contano, non esistono più. Per molti non sono mai esistite. Chiarisco: sto parlando di sport, non di filosofia o di storia delle idee, lo sport in cui mi sono imbattuto nel 1960: Livio Berruti e Rafer Johnson, Otis Davis e Kaufmann, Elliott (che ebbi la fortuna di conoscere e con cui ebbi un ineressante scambio di opinioni) e la signorina Rudolph, Oerter e Hary assunsero la dimensione del bello, dell’assoluto, dell’indimenticabile, diventarono le fondamenta di un edificio, di un museo di immagini, di momenti, di sensazioni, di volti che avevano una forza che poteva essere dolcissima o sferzante: la prima volta che vidi un cambio di passo, una finta elusiva di Barry John, provai lo stso improvviso dell’anima e inserii anche il Principe di Galles nella wunderkammer della mia coscienza.

Nei giornali che leggevo, nell’unica televisione (in bianco/nero) che tutti noi vedevamo, nei racconti di chi, più vecchio, aveva un patrimonio di ricordi da trasmettere, trovavo lo stesso atteggiamento: mio padre e Rosi mi parlarono del coraggio di Basilio, della ferocia di LaMotta; un vecchio atleta, Silvio de Florentiis mi confidò dell’improvvisa pena che provò vedendo arrivare alla partenza della maratona olimpica un etiope scalzo; e una recerche, a volta condotta a caso, mi permise di rinvenire i sentieri duri e selvaggi su cui si erano mossi Peter Snell e Billy Mills, lo stupore di Lynn Davies davanti al librarsi e all’atterrare di Beamon, l’irrompere di Gareth Edwards che con quella META, tutta in lettere maiuscole, mise ko gli All Blacks.

C’era, in tutti questi gesti, in questi personaggi, in queste storie, una quantità di bellezza assoluta, non accresciuta, ne sono certo, dal pulviscolo magico che il tempo può lasciare. Pensate ad Alì e capirete facilmente il concetto. Era una bellezza assoluta e disinteressata: veniva offerta come un dono ed era compito di chi lo riceveva mantenerlo, riporlo con cura. E’ una dei pochi aspetti che ammiro di me stesso: quel che ho vissuto intensamente, da testimone diretto o televisivo – non l’ho smarrito. E infatti una volta Gigi Riva mi disse: “Ma lei di me sa più cose di quante ne possa ricordare io”. Era normale: Riva era stato trasformato da Brera in un semidio e chi al tempo sedeva sui banchi del ginnasio e del liceo, impegnato in studi classici, non poteva non risentirne. Riva era Achille e Ercole: gloria, fatiche, sofferenze, beau geste.

Nel tempo felice in cui la gente non era imbrigliata nella Rete, non si esauriva nella masturbazione dei social media (non sanno che San Luigi piange se toccano troppo il telefonino?), la gioia era leggere le colonne dei risultati da tutto il mondo  pubblicati dalla Gazzetta, era metter le mani, quasi furtive, su un giornale francese o inglese, era sottoscrivere un abbonamento a una rivista tedesca o americana che quando arrivava portava nuovissimi risultati vecchi di un mese. Più o meno come capitava a chi, al tempo dell’Impero di Vittoria, riceveva a Auckland o a Sydney il Times fresco di tre settimane prima, se l’attraversamento dell’Atlantico prima, del Pacifico poi, erano scivolati via senza intoppi.

Era studiando quelle foto bianco e nero, era ricorrendo all’aiuto del vocabolario in due volumi inglese-italiano italiano-inglese Hazon, che l’orizzonte si allargava. Una miniera era rappresentata da una rubrichetta di Leichatletik, di solito stampata su una colonna: aus Ddr, dalla Ddr. Di solito c’era molto materiale interessante.  

Mi rendo conto che sto andando un po’ per le lunghe, quasi volessi evitare il cuore del problema. Non è così: quando ripenso a quel tempo, a quei volti, a quei campioni, a quel che seppero offrire, mi commuovo e provo un’ardente nostalgia per loro e per tutti quelli che ebbero in sorte di raccontarli, con la bocca, con la mente e con il cuore, citando una cantata di Bach.

Senza mai tuffarsi nelle acque, oggi sempre più profonde, del nazionalismo a buon mercato, della convenienza, degli ordini ricevuti dall’alto da tipi incompetenti ma ben introdotti, della audience e dello share, della grancassa da suonare a tutti i costi, di un linguaggio avvilente e massificato (mi segnalava un amico che oltre far sportellate nella F1, nelle moto, nel calcio, nel rugby, nell’atletica, ora pare si faccia a sportellate anche nel nuoto), di una totale assenza di quel che è stata la spezia che ha condito anni memorabili: la curiosità, il rinvenimento di una storia da narrare, non da dare in pasto a chi, pecudum more (chi sa il latino traduca, avrebbe detto tossicchiando mister Chips), esprime di solito un parere pieno di fiele - dopo aver fotografato il piatto che sta per mangiare – ed è interessato solo al suo guscio microscopico di lumachina incazzata.

Uno splendido futuro dietro le spalle: lo diceva un mio illustre concittadino, Vittorio Gassman. E’ così che si tira avanti.  

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