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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
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Saro' greve / Cosi' Velluti d'un colpo solo perse due Olimpiadi

Lunedì 12 Giugno 2017

testoni

di Vanni Loriga

Considerato che il sito è dedicato agli Sport Olimpici, questa volta, per essere finalmente “greve” verso me stesso. svelerò che nell’armadio delle mie esperienze conservo ben due “scheletri” ad essi (ai predetti sport olimpici) legati. Il primo, notissimo, è quello dell’Atletica; l’altro, meno noto, è la pallacanestro, ora conosciuta con la sineddoche di “basket”. Ricordo che la sineddoche (synedoche, visto che parliamo in inglese) è quella figura retorica in cui si usa la parte per il tutto (o viceversa). Vissi intensamente i due sport soprattutto nell’anno 1949. Aprimmo a Civitavecchia, dove vivevo, una sezione della locale Unione Sportiva e ci iscrivemmo al campionato di pallacanestro.

La squadra era formata da qualche anziano che aveva giocato ai tempi della GIL e da un gruppetto di giovani volenterosi, tra cui un certo Dido. Ci voleva l’allenatore e mi iscrissi ad un corso tenuto a Roma da Ferrero (tecnico della Ginnastica) e da Toti (della Indomita, femminile).

Giocavamo a basket alle Terme di Caracalla

Come aspirante-allenatore potevo sedere in panchina. Al termine del girone d’andata eravamo ultimi in classifica, con una sola vittoria sul Banco di Napoli in una partita giocata, non ci crederete, in un campetto all’aperto che si trovava allo Stadio delle Terme. Ci riunimmo per capire come uscire dalla crisi. Ad un certo momento uno dei miei giocatori affermò: “Mi sa che a noi ci manca un allenatore vero …”

“Mi sa pure a me!” replicai d’istinto, senza pensare che il tecnico della squadra ero proprio io. Purtroppo era così e perciò mi recai dal presidente regionale, il signor Valerio Aiò che aveva un bellissimo negozio di bottoni in via del Tritone, proprio davanti al Messaggero, e gli chiesi consiglio. Lui mi suggerì di sperimentare un Azzurro del basket che non aveva nessuna esperienza come trainer ma del quale si fidava al ceno per cento. Per farla breve, sulla panchina del Civitavecchia debuttò un certo Giancarlo Primo, in seguito DT della Nazionale. Ed indovinate chi era il nostro pivot? Dido Guerrieri, poi braccio destro di Primo, uno dei già citati ragazzi volenterosi. Era stata, bisogna dirlo, una bella partenza …

Nello stesso anno 1949 rappresentai il CUS Roma nella finale dei Societari disputata al Comunale di Firenze. Feci i 10 km di marcia, venti giri di pista che a quei tempi misurava 500 metri. Tempi e classifica, dei quali peraltro non mi vergogno, sono reperibili sugli appositi Annuari. Per completezza d’informazione il mio allenatore era Oscar Barletta. Anche lì eravamo partiti benissimo …

E’ più facile il salto in alto o quello in basso?

I lettori avranno capito che non ero nessuno in entrambe i campi, per cui mi è sembrato di toccare il cielo con un dito (sogno di ogni cestista mancato ...) quando poco tempo fa a Cagliari ho trascorso alcune ore piacevoli in compagnia di Claudio Velluti. Come me appassionato dei due sport appena citati per cui apparteniamo al medesimo segmento di umanità.

Ovviamente collocati alle due opposte estremità: lui altissimo, io no; lui 31 volte azzurro della pallacanestro e due scudetti con l’Olimpia Milano, io solo spettatore; lui secondo italiano ad aver superato la misura dei 2 metri nel salto in alto ed io primatista ufficioso nel salto in basso (Monaco di Baviera, 5 settembre 1972); lui per 45 anni primaio ortopedico, io solo cliente della benemerita categoria proprio a causa del salto bavarese.

Per attaccare discorso calo subito sul tavolo una carta pesante. Parto proprio dal settore del salto in alto comunicandogli che il 27 settembre 1936 ebbi modo di assistere per la prima volta ad un primato italiano. Allo Stadio Mussolini di Torino la bolognese della Venchi Unica Claudia Testoni superò la misura di 1.54.

Il professor Velluti ricambia l’accenno alla Signora, (in seguito sua suocera una volta coniugata Pedrazzini e mamma di Gabriella) consegnandomi una foto (che vedete in apertura)  la cui autografa didascalia ricorda il titolo europeo, con primato mondiale due volte eguagliato, sugli 80 ostacoli: Vienna, 17 settembre 1938. I medici avevano sconsigliato alla Testoni la partecipazione alla gara.

Siamo in Sardegna, parlo con un Sardo (nato a Cagliari il 15 aprile 1939) ma certi cognomi nulla ricordano dell’Isola. Dato per scontato che Claudia Testoni ed Edo Pedrazzini vantavano precise radici bolognesi, bisogna chiarire le origini dei Velluti. I genitori di Claudio erano nati anche loro in Sardegna; il babbo Enrico a Cagliari e la mamma Rosa Rosso Maltinti a Carloforte (chiare ascendenze continentali).  

Bisnonno Belisario, garibaldino per protesta

Andando a ritroso si arriva finalmente al bisnonno di Claudio, esattamente Belisario, che fu il primo a giungere nell’Isola. Già alto funzionario Vaticano e deluso per una mancata promozione passò dall’altra parte della barricata, divenne garibaldino e si trasferì a Caprera uomo di fiducia dell’Eroe dei Due Mondi. Alla sua morte raggiunse Cagliari dove si dedicò alla professione di falegname. Ma nei suoi lombi scorreva sangue nobile. La famiglia de’ Velluti proviene dall’antica Semifonte, la città fortificata che nel 1202 fu rasa al suolo da Firenze. Lo stesso padre Dante ne parla nel canto XVI del Paradiso, indicando capo della rivolta semifontina un certo Lippo Velluti.

Ed a proposito della città scomparsa non sarà superfluo ricordare che le sue scarse vestigia si trovano a Marcialla in Chianti nelle Tenute Giannozzi, la famiglia di cui fece parte il professor Giancarlo, per lunghi anni presidente della federazione Pallavolo, membro di Giunta CONI ed illuminato docente di diritto negli Atenei di Firenze e Cagliari.

Date il massimo; non avrete neanche il minimo

Saputo tutto sulle vicende genealogiche resta da chiarire un ultimo dubbio. Claudio Velluti nel 1960 era in predicato per partecipare ai Giochi romani sia nella pallacanestro che nell’atletica. Nel basket lo teneva in grande considerazione il DT Nello Paratore; nel salto in alto (gareggiava con i colori della Riccardi) aveva superato i 2 metri, misura qualificante ai Giochi. Dovendo fare una scelta fu convinto dal DT Giorgio Oberweger ad optare per la prova individuale.

Lui, con Raimondo Tauro, si trasferì a Schio allenandosi con la dovuta diligenza. Ma a due settimane dalla rassegna romana il DT comunicò a Velluti che avrebbe dovuto confermare i 2 metri, peraltro misura di qualificazione. E visto che non c’erano in calendario gare di alto, fu dirottato su un decathlon che si disputò proprio a Schio. Saltò 1.97 ma la misura non fu ritenuta sufficiente. Così nessun italiano partecipò a quella gara che si rivelò come una delle più drammatiche di ogni tempo, con l’inopinata sconfitta del favoritissimo John Thomas, la vittoria del poco atteso Robert Shavlakadze e l’argento dell’immenso Valery Brumel.

Claudio Velluti, che si era avvicinato al salto in alto vincendo a 16 anni gli studenteschi cagliaritani con 1,87, le Olimpiadi romane le seguì dalla tribuna. Bene o male è riuscito a procurarsi un accredito e vive insieme ai colleghi nel Villaggio Olimpico. Non ha rimpianti, ma gli consigliamo un motto araldico che ci sembra appropriato alla sua vicenda: “Date sempre il massimo; non vi sarà garantito neanche il minimo!”

 

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