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Opinioni / "Race": un povero Owens falso come un fumetto

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Giovedì 30 Marzo 2017

owens.2

di Giorgio Cimbrico

Il progredire dell’età ha un pregio: il fiuto migliora. L’anno scorso l’uscita sugli schermi di “Race”, il film su Jesse Owens, destò in me sospetti così forti da esser combattuti con un tentativo di spietata autocritica: “a fregarti, al solito, è il tuo dannato snobismo”, fu in sintesi l’accusa che l’umile cimbricus rivolse all’arrogante cimbricus in un eterno gioco di doppi che, come sapete, ha una solida base letteraria. Vinse l’arrogante e non andai.

Meno di 24 ore fa, da abbonato Sky (quasi esclusivamente per ragioni rugbystiche), ho avuto occasione di prendere visione di “Race”, in italiano il "Colore della Vittoria", per rubricarlo appena al di sopra dell’inguardabile e insensato “pastiche” Rai su Dorando Pietri e, in un arrivo ippico, avanti forse di un’incollatura a quanto venne concepito, girato e montato sulla vita e le imprese di Pietro Mennea, nostro contemporaneo.

Se quasi quarant’anni fa ci trovammo, estasiati e commossi, di fronte a “Momenti di Gloria” – l’originale “Chariots of Fire” è più bello, ma cosa volete attendervi da una commissione titoli che al poetico “Jeremiah Johnson” impose l’etichetta di “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo?” – e ora il tempo, il più implacabile dei maestri, ci ha portato, con la tenue consolazione del dito e mezzo di puro malto e di tre Camel, a queste due ore che avremmo fatto meglio a dedicare alla sesta di Mahler, detta anche Tragica.

Con qualche errore di fondo – la corsa scandita di rintocchi del campanile del college di Cambridge – che non venne digerito da Lord Burghley, futuro VI Marchese di Exeter, “Momenti di Gloria” è un bel pezzo di vite parallele, girato sui luoghi – Colombes compreso -, con magnifica musica (Vangelis), cura estrema sia nei costumi (Milena Canonero ottenne il suo secondo Oscar dopo “Barry Lindon”, per allungare poi la serie con “Marie Antoinette” e “Grand Budapest Hotel”) sia nell’attenzione che Hugh Hudson prestò ad ogni aspetto, a cominciare dalla tecnica di corsa che impegnò a fondo sia Ben Cross (Harold Abrahams) che il povero Ian Charleson che interpretò Eric Liddell.

In "Momenti di Gloria" la luce era sempre calda, di un fervore creativo, ancor prima che tecnico. In "Race" c’è quella luce livida della finzione elaborata dal computer a cui consegni una pecora: verrà dilatata in un immenso gregge.

Il giorno-dei-giorni

E’ venuto il momento di parlare di quel che capita nel film: il sorgere di Jesse Owens, il giorno dei giorni ad Ann Arbor, la settimana delle settimane a Berlino. Omissis sullo stile di corsa del canadese Stephan James e, per clemenza, omissis anche sulla traduzione delle didascalie (le 200 yards non esistono, così come non esistono le 225 yards ad ostacoli) e su quella pedana del lungo dell’Olympiastadion, assai corta ma larga come una strada provinciale a due corsie, e non il regolamentare 1,22, dilatabile sino a 1,25. Questi, naturalmente, sono particolari che possono esser colti dallo specialista, che di solito è anche un tipo noioso.

E’ il clima generale che è falso, come i fondali ricreati in vitro. Ad esempio, Avery Brundage va a Berlino per capire quale sia la situazione della Germania e durante il suo tragitto in Mercedes scoperta può assistere alla deportazione di ebrei, scagliati nei camion, così come i loro mobili vengono scagliati dalle finestre dalle SA. Ed è sempre Brundage, dalle indubitabili simpatie per il Nuovo Ordine, a far piovere una pubblica nuvola d’ira all’indirizzo di Joseph Goebbels: “O Hitler si congratula con tutti o non si congratula con nessuno”. Senza inveire, o alzar la voce, l’intervento fu del conte Henri de Baillet-Latour, al tempo presidente del CIO.

C’è anche una fatina buona – Leni Riefenstahl – che sa mettere al suo posto anche Goebbels dallo sguardo perennemente vitreo, c’è l’amicizia con Lutz Long (una didascalia spiega che venne punito con l’arruolamento nella Wehrmacht: sic! ...), c’è, sempre a proposito di sciagurati contributi in sovraimpressione, che il presidente degli Stati Uniti – Franklyn Delano Roosevelt - non riconobbe mai le 4 medaglie di Jesse. Sarebbe stato meglio dire che Owens non venne premiato come atleta americano del 1936: new deal o no, era nero, dopotutto. L’onore toccò al decathleta Glenn Morris che aveva avuto una bruciante storia con la citata fatina, più conosciuta come musa del Fuhrer. Il pubblico bacio delle tette di Leni, di fronte ai 100.000, ne fu la prova documentale.

E’ un film noioso perché quel che di bello Owens seppe offrire, si riduce a pochi fotogrammi raffazzonati. Il resto: una onanista discussione sul razzismo americano, a una retorica propagandistica (“se tu non gareggi, i nazisti conquisteranno altre medaglie”), a uno stato delle cose immutabile: forse la scena più bella è l’ultima, quando Jesse e sua moglie devono entrare nell’hotel, dove è in programma la cena in suo onore, dalla porta di servizio, salendo con un montacarichi.  

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