Mangiarotti

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Edoardo Mangiarotti [1919-2012]
Scherma


              (gfc)
Una leggenda dello sport, non soltanto italiano. È infatti lui l’azzurro che ha vinto il maggior numero di medaglie olimpiche: tredici complessive delle quali sei d’oro. Ma anche l’esponente più rappresentativo di una grande famiglia di schermidori che ha visto in pedana (e ai Giochi) almeno tre generazioni.

             Edoardo è stato un figlio d’arte nel vero senso del termine. Suo padre Giuseppe [1883-1970], figlio di una soprano e di un garibaldino, cugino in primo grado del grande maestro torinese Luigi Peroncini Colombetti [1873-1958], è stato tra i maggiori maestri italiani. Dopo aver scoperto le magie dell’arte nel 1905 per poter vincere una scommessa fatta col socio in commercio Rodrigo Rizzotti (il giornalista che aveva dato una mano a Giuseppe Costamagna nei primi tempi della Gazzetta dello Sport), venne educato all’arte del fioretto e della spada da terreno dal barone siciliano Lancia di Brolo. E con notevole e rapido profitto tanto da prendere parte, venticinquenne, ai Giochi del 1908 tenuti a Londra. Nel primo dopoguerra scelse decisamente la strada del professionismo e, diventato a sua volta maestro, nel 1919 (anno della nascita di Edoardo) si imponeva ad Ostenda nel torneo per il titolo europeo di categoria.

              Studioso appassionato della spada, arma italiana per eccellenza, Giuseppe Mangiarotti ne operò una profonda revisione in senso tecnico, puntando su una maggiore dinamicità del gesto. Da Anversa a Berlino, ma anche negli anni seguenti, ricoprì ruoli di primo piano nella preparazione degli schermidori olimpici. Il suo capolavoro lo firmò ai Giochi di Amsterdam quando quattro giovanissimi allievi cresciuti alla sua scuola – Carlo Agostoni, Giancarlo Cornaggia-Medici, Renzo Minoli e Franco Ricciardi – strapparono allo squadrone francese, capitanato dal grande Lucien Gaudin, il predominio olimpico dell’arma. Un successo che scosse perfino l’inossidabile Agesilao Greco – maestro dei maestri – che affidò di getto le sue emozioni ad un telegramma entusiasta: “Partecipo con tutta l’anima magnifica vittoria italiana da me per trent’anni con immutabile fede auspicata”.

              Tra i tanti schermidori usciti, in mezzo secolo, dalla sua palestra alla Società del Giardino (e tra loro anche sua moglie Rosetta, tra le prime donne a cimentarsi con continuità nel fioretto), le soddisfazioni maggiori gliele regalarono proprio i tre figli per i quali la scherma era una strada segnata sin salla più tenera età: Dario, Edoardo e Mario, il primo nato nel 1915, l’ultimo nel 1920. Per i ragazzi la scherma sarebbe stata una metafora dell’esistenza: in pedana avrebbero appreso “il tempo, l’agilità, la rapidità nei diversi spostamenti del corpo e la prontezza dei riflessi mentali e visivi”. Una scommesa vinta, quella del vecchio maestro, a giudicare dai risultati. Con quale determinazione li avesse preparati al loro futuro di magnifici schermidori lo ha narrato egli stesso: “Devo confessare che nell’allevamento dei miei figli sono stato eccessivamente severo, ma non ho dovuto pentirmene perché cresciuti alla scuola della disciplina e del dovere, non hanno tardato a darmi delle grandi soddisfazioni. […] Non ho mai dato eccessiva confidenza ai miei figlioli, né mai mi sono lasciato vincere da impulsi di smoderata affettuosità. Niente baci né abbracci, ma solamente lodi contenute quando se lo meritavano. Così crebbero in una atmosfera di vigilante disciplina e serietà. In casa, a turno, dovevano servire a tavola ed aiutare la mamma nei mestieri domestici. […] Rincasati dalla suola, terminati i compiti, dovevano venire da me in Sala per la quotidiana lezione di scherma e, cosa strana a dirsi, io che con tutti i miei allievi sono stato paziente e, direi, quasi affettuoso, con loro nelle correzioni ero severissimo; non ammettevo né sbagli né inutili distrazioni”.

              Ma non basta. Per temprarne maggiormente il carattere, il severo maestro volle che i figli apprendessero la boxe e per questo li affidò alle cure di Piero Bóine, primo campione del pugilato italiano. Così i bambini, intorno ai dieci anni, calzarono i guantoni esibendosi durante le serate di gala schermistica organizzate dal padre, serate tra sport e mondanità delle quali finivano per essere richiamo ed attrazione. Anche perché, “più di una volta ebbero l’onore di avere sul quadrato come arbitro ufficiale l’allora campione d’Europa dei pesi massimi Erminio Spalla”. E non erano incontri da poco, ma articolati su dieci riprese da tre minuti, come capitò in una serata all’Astoria che richiamò una folla strabocchevole. Quindi scherma e pugilato, ma non solo per l’educazione sportiva dei tre fratelli. C’era d’estate il ciclismo sui sentieri di montagna, il tennis e il nuoto (“Mio figlio Mario a soli nove anni inaugurava il trampolino della piscina del Poggio Diana di Salsomaggiore, tuffandosi dall’altezza di dieci metri”).

              Edoardo, nato a Renate Veduggio come la madre Rosetta (che morirà, assieme ad altri parenti in tragiche circostanze, quando la casa di vacanze verrà travolta da un torrente in piena), perito radiotecnico, mancino di preferenza, è stato in assoluto il migliore dei tre, eccellendo in modo naturale nella spada più che nel fioretto. Assieme alle tredici medaglie olimpiche, in quasi mezzo secolo di carriera Edo ha ottenuto 13 titoli mondiali e 7 italiani, oltre ad innumerevoli affermazioni riportate nei più importanti tornei internazionali (come le tre consecutive vittore alla celebre “Coppa Monal” di Parigi, impresa mai eguagliata). Le sue doti vennero notate molto presto e nel 1936, quando aveva poco più di 17 anni, Nedo Nadi – che preparava la squadra – lo volle a Berlino contro il parere di molti. Il giovanotto ripagò a pieno la fiducia contribuendo alla vittoria italiana nella spada a squadre. Dopo aver perso due appuntamenti olimpici a causa della guerra, Edoardo tornò in pedana a Londra nel 1948, misurandosi nelle due armi: riportò l’argento nel fioretto e nella spada a squadre e il bronzo nella spada individuale.

              Quattro anni più tardi, ad Helsinki, ebbe la sua l’apoteosi e, con essa, il trionfo della famiglia con la più completa affermazione della scuola paterna. Edoardo e Dario si affrontarono infatti in finale per il titolo olimpico della spada. Si impose il più giovane Edo, ma la foto dell’abbraccio dei due fratelli in lacrime resta tra i documenti più umani e veri di tutta la storia olimpica. Di quel momento Edoardo ha scritto: “Ci trovammo l’un l’altro abbracciati ed il nostro pensiero corse a nostro padre che col suo sapere schermistico ci aveva formati e temprati a quella inflessibile disciplina sportiva che ci ha portato tante soddisfazioni”. In Finlandia Edoardo riportò la medaglia d’oro sia nella spada individuale che in quella a squadre, l’argento nel fioretto individuale e a squadre. Dario, oltre l’argento individuale, vinse anche l’oro a squadre, titolo sfiorato quattro anni prima a Londra quando aveva dovuto contentarsi dell’argento. Concludeva in tal mondo una carriera importante che lo aveva visto due volte campione del mondo: nel 1937 (a squadre) e nel 1949 (individuale).

              A Melbourne la collana di vittorie si allungò ancora con le medaglie d’oro nel fioretto e nella spada a squadre e con il bronzo nella spada individuale, ottenuto quest’ultimo al barrage dopo una feroce lotta in famiglia con Carlo Pavesi, primo, e Giuseppe Delfino, secondo. Tre italiani su un podio olimpico: come era accaduto solo una volta in precedenza, nel 1936, nella spada. L’ultimo appuntamento olimpico, quello a cui per nessuna ragione al mondo Edoardo avrebbe rinunciato, lo vide impegnato a Roma solo nelle prove a squadra e si concluse con altre due medaglie: quella d’oro nella spada e quella d’argento nel fioretto. Edo aveva ormai 41 anni e per di più in quei giorni – al culmine di una diatriba sul professionismo nello sport olimpico che aveva portato CONI e Federazione Scherma a confrontarsi dinanzi al Consiglio di Stato – era contemporaneamente impegnato su tre fronti: come schermidore, come responsabili della federazione, all’epoca commissariata, e come … cronista per la Gazzetta.

              All’indomani dei Giochi di Roma Edoardo chiuse la carriera, come aveva già fatto Dario (precedendolo nell’insegnamento nella gloriosa palestra del padre del quale ora portava il nome), ma dedicando anche tempo ed energia alle associazioni nazionali degli Azzurri d’Italia. Il terzo fratello, Mario, medico chirurgo, aveva da tempo lasciato la scherma per la professione di cardiologo. La tradizione di famiglia è stata proseguita con successo da sua figlia Carola, due volte quinta nel fioretto a squadra ai Giochi del 1976 e del 1980 e dalla cugina Bruna Colombetti, medaglia di bronzo nel fioretto ai Giochi di Roma.


I 26 “podî” iridati di Edoardo Mangiarotti
(totale medaglie dal 1937 al 1958: 13 Oro, 8 Argento, 5 Bronzo)
- Fioretto Individuale: 0 Oro, 3 Argento, 2 Bronzo
- Fioretto a Squadre: 4 Oro, 2 Argento, 1 Bronzo
- Spada Individuale: 2 Oro, 2 Argento, 0 Bronzo
- Spada a Squadre: 7 Oro, 1 Argento, 2 Bronzo

Ultimo Mondiale disputato: anno 1959 (Fioretto a squadre, elim. in Semif.).

(revisione: 10 Luglio 2012)

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