Braglia

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Alberto Braglia [1883-1954]

Ginnastica

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(gfc) Il pennone più alto della ginnastica italiana inalbera ancora oggi, fieramente, il suo nome. Nato in una famiglia emiliana che campava in dignitosa povertà, padre manovale, studi ridotti all’essenziale della terza elementare, quindi messo a garzone da un fornaio, possedeva per gli esercizi fisici “un senso estetico e dinamico, un’eleganza ricca di forza e di inventiva” quali non s’erano mai visti prima. Con una elasticità degna di un acrobata che gli rendeva semplice l’impossibile.

Al suo rientro in Patria, dopo il trionfo riportato ai Giochi d’Atene del 1906 dove aveva destato enorme ammirazione, scoprì che l’eco delle sue imprese l’aveva preceduto da giorni. Tanto che il sindaco, seguito dall’intero consiglio comunale e una folla enorme, era corso ad aspettarlo in stazione con la banda cittadina in alta uniforme e gli ottoni lucidati a puntino. Lo stesso sovrano Vittorio Emanuele, notoriamente poco incline agli entusiasmi, volle in seguito incontrarlo chiedendogli, con cordialità inusuale, un desiderio da esaudire. “Un posto da operaio alla manifattura tabacchi, Maestà”, fu l’imbarazzata risposta, data a capo chino.

Un “fenomeno”: questo era il giudizio col quale la giuria del Concorso di Firenze del 1901 aveva valutato gli esercizi di quel diciottenne dall’aria fiera e dagli arditi, e ancora radi, baffetti a punta. Il giovane Braglia era un predestinato, aveva la ginnastica nell’anima e ogni evoluzione, anche la più azzardata, gli riusciva naturale. Era venuto alla luce in un paesino della provincia di Modena il 23 marzo 1883. Rispettoso e riservato, affascinato dagli esercizi fisici, aveva iniziato da solo, da volenteroso autodidatta, costruendo una traballante attrezzatura per gli allenamenti, prima di approdare alla mitica palestra della “Società del Panaro” dove il maestro Carlo Frascaroli ne intuì le doti non comuni, plasmandole e portandole a perfezione quasi assoluta, ma senza comprimere la naturale inventiva del ragazzo. Come detto, ai Giochi del Decennale, Braglia – da sconosciuto o poco più – trovò una sorprendente consacrazione. Gliela offrirono gli spettatori greci tributandogli – non dimentichi dell’aiuto ricevuto nella lotta per la loro indipendenza dalle camicie rosse garibaldine –, una corale e spontanea acclamazione al grido di “Viva l’Italia!, Viva Garibaldi!”.

Da quel successo il giovanotto trasse nuovo vigore. Eccolo allora nella Londra del 1908 per i Giochi Olimpici, quelli ufficiali. Sul prato di White City il ginnasta emiliano seppe ricamare tutto il suo repertorio inimitabile che pose in serio imbarazzo i giudici inglesi i quali trovarono inadeguati i codici di punteggio per valutarne, e premiarne, le esecuzioni. “Perfetto” fu il termine dietro il quale si rifugiarono, quello più ricorrente e che meglio parve esprimere il loro giudizio. Braglia vinse la medaglia d’oro individuale trascinando all’entusiasmo i distaccati londinesi con la celebre “presa digitale” al cavallo, uno dei segreti che ne fecero il miglior ginnasta del suo tempo.

Campione olimpico, era ormai personaggio popolarissimo. Le foto che lo ritraevano con la maglietta a strisce modellata sui muscoli pettorali, appesantita da diecine di medaglie, figuravano spesso sui giornali illustrati dell’epoca. Alle gare a volte veniva ammesso fuori concorso, con le giurie intimorite da quelle esemplari esibizioni ai grandi attrezzi che sconfinavano in vere acrobazie, al limite della temerarietà. Una superiorità che gli fece commettere qualche errore di comportamento, tanto da attirargli l’accusa di professionismo e la minaccia di una squalifica.

Come quelle esibizioni a pagamento effettuate con un gruppo di acrobati circensi – la “Famiglia Panciroli” –, o quello spettacolo teatrale, messo in piedi nel 1910 coll’aiuto del fratello Giovanni, nel quale si faceva carambolare in aria da uno scivolo verso un altissimo trapezio. Un numero da “Torpedine Umana” allestito al Teatro Storchi di Modena nella serata del 23 aprile 1910 che si risolse con un fiasco e non danni fisici abbastanza seri. Malgrado tutto, quattro anni dopo, nel 1912, eccolo a Stoccolma: i ventitré ginnasti italiani furono i dominatori di quei Giochi ospitati nel paese dalle lunghe ombre che adorava la ginnastica e che, tra i primi, l’aveva aperta anche alle donne. Gli azzurri si imposero nella gara a squadre trionfando, il giorno dopo, proprio con Braglia nell’individuale, mentre altri quattro italiani si piazzavano tra i primi sette.

Ancora una volta fu un trionfo. A ventinove anni il modenese poteva considerarsi un mito. Ma se la ginnastica gli aveva dato onori e notorietà, non lo aveva certo reso ricco. Ecco allora Braglia risolsersi a lasciare il posto alla Manifattura e le pedane per cercare onori meno aleatori e guadagni più certi. Nacque così, nel 1914, uno spettacolo di evoluzioni e giochi acrobatici che portava sul palcoscenico le avventure di “Fortunello e Cirillino”, la striscia di Sergio Tofano resa popolare dal Corriere dei Piccoli. Anche se, forse per un eccesso di pudore, non volle mai che il suo vero nome figurasse sui manifesti. Dove invece figurava il nome del suo partner, “Cirillino”, un adolescente minuscolo che entrava in scena chiuso in una valigia. Si chiamava Ettore Valente e, quando il numero si sciolse, restò in America aprendo un ritrovo a Chicago. Lo spettacolo fu un successo immediato, folgorante, che spalancò a Braglia anche le porte della compassata corte d’Inghilterra, che lo accompagnò in una lunga tournée americana e che, finalmente, gli procurò quel benessere che non aveva mai conosciuto prima.

Conclusa anche quella esperienza, tornato nel 1924 a Modena quasi benestante, ma con molta nostalgia per la polvere e il sudore delle palestre, si lasciò di buon grado convincere a preparare i ginnasti per Los Angeles 1932. Fu un nuovo successo, con la squadra azzurra ancora una volta al primo posto, e con tre medaglie d’oro vinte nelle prove individuali dal suo conterraneo Romeo Neri e dal milanese Savino Guglielmetti.

Poi il tracollo. Vennero gli anni oscuri della guerra e del dopoguerra, che gli strapparono via tutto: sotto le bombe erano scomparsi il bar che aveva aperto a Bologna e la casa di Modena. Nel 1945, ascoltando avventatamente consigli interessati, vendette quel poco che restava, il podere e le ultime roprietà, restando con un fascio di biglietti di nessun valore. La svalutazione fece il resto e, quasi senza avvedersene, tornò povero in canna com’era nato. Una vita di stenti, la sua, fino a quando il Comune di Modena si ricordò delle sue imprese e gli venne in aiuto offrendogli un posto da custode nella sua “Panaro”.

E lì invecchiò tristemente tra i ricordi sempre più sfumati, con l’arteriosclerosi che lo consumava e i dolori alle spalle e alle giunture che non gli davano tregua. Lo volevano ricoverare in una casa di riposo per poterlo meglio curare. Morì prima, all’ospedale cittadino. Il 5 febbraio del 1954, una trombosi cerebrale si portò via il grande “principe dei ginnasti”: aveva 71 anni. Giulio Onesti volle che alle spese per le esequie e la tumulazione facesse fronte il CONI. Il feretro, partendo dalla “Panaro”, venne seguito da una folla imponente, valutata ad oltre 20.000 persone, fino al Cimitero di San Cataldo. In pratica tutta la città che alla sua memoria volle dedicare lo stadio cittadino.

(revisione: 16 febbraio 2015)