Storia / I 60 anni dellOlimpico: quando Onesti scriveva a Zauli

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Sabato 18 maggio 2013

Alcuni giornali hanno ieri celebrato, con enfasi un po’ sospetta, il sessantesimo anniversario dello Stadio Olimpico, il centro nevralgico dei Giochi di Roma ’60, completamente snaturato, in seguito, in occasione di Italia ’90. L’interesse si è incentrato sull’inaugurazione, avvenuta nel pomeriggio del 17 maggio 1953, con un incontro di calcio tra le nazionali d’Italia e d’Ungheria. La squadra fenomeno di Hidegkuti e Puskas (più o meno nella stessa formazione che, l’anno prima, aveva eliminato gli azzurri dai Giochi di Helsinki), destinata a violare di lì a poco l’imbattibilità inglese e a perdere, inopinatamente, i “mondiali” del ’54 contro i residui della Germania, primo grande caso di doping collettivo. Gli azzurri, affidati a un tremebondo Carlin Beretta (con Meazza quale secondo), persero per 3 a 0, aprendo una delle ricorrenti comiche crisi di pensiero sul calcio. Alla vigilia i maggiorenti del CONI – preceduti da Giulio Andreotti – avevano reso omaggio al pontefice Pio XII che li aveva ricevuti nella sala del Concistoro e benedetto la bandiera del Comitato Olimpico. Il papa si era “congratulato con quanti, superando non lievi difficoltà e dopo lunghe vicende”, avevano “condotto a termine un’opera ben degna di inserirsi per le dimensioni nella tradizione del grandioso e del bello, proprio della Roma di ogni tempo”.

Ecco, proprio l’aver “condotto a termine” quell’opera era tra i (tanti) meriti di Bruno Zauli, il segretario del CONI del quale quest’anno cadono i cinquant’anni della morte. L’uomo che si era battuto per anni per il completamento dello stadio a ché fosse pronto per la candidatura di Roma ai Giochi Olimpici (dopo le naufragate speranze del 1940 e del 1944). Sarà lo stesso Giulio Onesti a riconoscerlo. In una lettera manoscritta indirizzata a Zauli, infatti, si legge:  

“Caro Zauli, sembra oggi che due anni e mezzo di tempo siano trascorsi in un baleno: anche chi abbia seguito giorno per giorno la nascita dello Stadio Olimpico, ora rimane quasi meravigliato nel vedere l’opera portata a compimento.
Non vorrei che, come sempre avviene nella vita, il lavoro speso, le difficoltà superate, le ostilità sofferte, siano dimenticate una volta che lo scopo comune è raggiunto.

Certamente non è qui necessario il racconto di questo vicino passato, poiché il CONI ne è stato in un certo senso attore e bersaglio. Ma personalmente ritengo doveroso esprimerti per iscritto, affinché rimanga tra i tuoi ricordi, il mio rallegramento e la mia lode per quanto hai voluto e saputo fare per lo Stadio Olimpico di Roma.


Coloro che guardano le cose dall’esterno, non sanno tutto quello che è stato necessario compiere per arrivare in porto. Essi ignorano quanta abilità, ma soprattutto quanta incredibile pazienza sia stato necessario adoperare per venire a capo dell’impresa. Per nostra fortuna la convinzione della necessità dell’opera era talmente radicata nella tua mente che tutti hanno potuto prendere spinta e coraggio dal tuo esempio.

Ricordo le notti che hai speso discorrendo coi tecnici, le tante ore di riposo a cui hai rinunciato per dedicarle disinteressatamente ai sopraluoghi ed alle visite al cantiere, la sollecita presenza che hai donato per anni per la soluzione dei problemi sempre nuovi che sorgevano.

Dopo aver vissuto insieme nella nostra grande famiglia di sportivi la gioia dell’inaugurazione dello Stadio Olimpico, dopo aver ammirato il funzionamento perfetto di una organizzazione alla quale hai preso tanta parte, dopo che da tante parti, non solo dall’Italia ma anche dal mondo, giungono consensi e plausi alla nostra comune fatica, mi piace di esprimerti la riconoscenza mia personale alla quale mi auguro si aggiunga quella dei cari e vicini amici dirigenti dello sport.

Affettuosamente, Onesti.”

L’inaugurazione concludeva un periodo travagliato che affondava le sue origini nei primi anni Trenta. Quando, nel fervore dei grandi lavori che sconvolgevano l’assetto urbanistico della Capitale, si mise mano a due progetti grandiosi e per certi versi contigui: la Città degli Studi e il Foro Mussolini. Quest’ultimo, ideato da Enrico Del Bebbio, prevedeva due stadi contigui, a diversa vocazione, quello dei Cipressi (o dei 100.000) e quello dei Marmi, collegati da una galleria sotterranea. L’assetto definitivo del complesso era stato apposto nel 1937 da Luigi Moretti, sull’esempio della Parteigeländ di Norimberga, “una grande platea per le manifestazioni e i riti di massa, l’arengo della nazione”.

Poi la guerra, e il lungo sonno della ragione, avevano impedito il completamento dello stadio. Il ricorso ai fondali di cartone, nel maggio 1938, per inquadrare la visita di Hitler a Roma, aveva sollecitato solo il genio caustico e melanconico di Trilussa. Per vedere le prime gare bisognerà attendere il 1944, dopo l’ingresso delle truppe alleate nella Capitale. Il 16 luglio di quell’anno lo stadio Olimpionico – come lo si chiamava a volte – si tenne un meeting tra le rappresentative delle varie zone di guerra, atleti/soldati di almeno sette nazionalità, italiani (pochi) compresi. Sulla tribuna un grande tricolore sabaudo. Programma ridotto, ma con una inedita corsa sulle 6 miglia.

I pochi giorno di lavoro concessi non avevano permesso di attrezzare al meglio la pista, che restava un molle agglomerato di terra. Un dettaglio curioso: quell’anello misurava 500 metri “con curve a tre raggi”, ma aveva 8 corsie, come tornerà ad avere solo quarant’anni più tardi. Sulle scalee, quasi deserte, assisteva anche Zauli, che da un anno almeno tentava di riannodare “le sparse fila” dell’atletismo. Quel giorno d’estate, alle due del pomeriggio, l’allora sindaco di Roma – il principe Doria Pamphili – poteva officiare la cerimonia di nuova consacrazione del complesso sportivo, imponendogli il nome di Foro d’Italia (solo più tardi diventato Italico). Poi, con la sfilata delle squadre, avevano inizio le gare.

Allo stadio si tornerà a mettere mano all’inizio degli anni Cinquanta. Il progetto definitivo, concluso nell’anno 1951, porta la firma del prof. Carlo Roccatelli (che non lo vedrà completato) e dell’arch. Annibale Vitellozzi. Il plastico venne presentato ai Concorsi dell’Arte dei Giochi di Helsinki, ma senza ricevere citazioni di sorta. Come era già avvenuto nel 1936 quando, a Berlino, era stato presentato un analogo progetto di Angelo Frisa e Cesare Valle (titolo: “Lo stadio dei Cipressi al Foro Mussolini di Roma”). Il nuovo impianto, completato in poco più di venti mesi, sotto la spinta di Zauli, venne a costare quasi 3 miliardi e mezzo di lire. Adagiato sotto Monte Mario, con il bianco dei suoi travertini e il verde delle panchine in legno, si integrava perfettamente nel paesaggio. Uno splendore di funzionalità e un miracolo architettonico.

Poi arrivò Italia ’90 di cui nessuno oggi rivendica la paternità. Presidente pro-tempore del CONI era un avvocato milanese, Arrigo Gattai, che orchestrò i lavori romani. L’Olimpico venne demolito in gran parte, ricostruito con un casuale raccordo tra curve e tribune, e con l’imposizione di una copertura tanto brutta quanto inutile. Ne seguirono furibonde liti e lunghi processi, in un clima nel quale, su tutto, predominava il disinteresse culturale. Ha recentemente scritto Vittorio Vidotto (“Roma contemporanea” presso Laterza): “Il vecchio stadio venne smontato e ricostruito modificando la copertura praticamente in corso d’opera per accontentare i Verdi. Alla fine la visuale di Monte Mario rimaneva comunque intercettata e in parte compromessa da un ingombrante manufatto costituito da un gigantesco bianco ‘copricapo’ di tubi intersecati, mentre gli otto divaricati piloni previsti dal progetto originario per reggere i sottili tiranti della nuova costruzione avrebbero offerto una soluzione scenografica più leggera e paesaggisticamente più accettabile”. Si poteva fare di peggio?

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