Atletica / "Ciccio" Arese: ovvero la crisi del settimo anno

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8 Settembre 2011

(gfc) Qualche (amara) riflessione all’indomani del (prevedibile) fallimento di Daegu. La permanenza di Arese alla presidenza della FIDAL ha superato il traguardo del settimo anno, ma la tradizionale crisi è in atto da tempo. Semmai, si è fatta più acuta all’indomani del mortificante mondiale coreano e alle viste dei Giochi di Londra (e degli Europei di Stoccolma) della prossima estate. Vediamo se è possibile offrire qualche spunto di dibattito. Arese Francesco da Centallo, nei suoi anni giovanili detto “Ciccio”, è stato eletto presidente della FIDAL nel novembre 2004, a sessant’anni suonati. Non proprio un giovincello di primo pelo. Era stata, la sua, una designazione a sorpresa, frutto di un casuale raccordo tra le varie litigiose anime dell’atletica italiana che – forzosamente unite su un fronte comune, non tanto avverso a Gianni Gola, quanto ai suoi più stretti collaboratori –, subito dopo Atene, s’erano raccordate per studiare soluzioni diverse. Il nome di Arese era stato proposto dall’ex-CT della nazionale Enzo Rossi, il quale non dovette faticare molto per farlo accettare (malgrado non deponesse a favore del “Ciccio”-dirigente il precedente fallimento alla guida del CR del Piemonte, portato a un indubbio calo di risultati e praticanti).

Al più, ad Arese si poteva rimproverare di essere stato, da atleta, un solitario, un introverso, più propenso ad utilizzare il rassicurante dialetto delle Langhe, sottrattosi presto alla tutela di Marcello Pagani che l’aveva dirozzato al CS Fiat, per perseguire obiettivi più personali. Tappe di quel percorso furono dapprima la creazione dell’Atletica Balangero, minuscolo club familiare del quale Arese era l’unico tesserato; quindi il passaggio nel 1972 all’AL.CO. di Rieti, la società nella quale Sandro Giovannelli andava riunendo gli atleti di maggior peso in nome di un professionismo più spinto (anche Pietro Mennea indossò la maglia di quel club dalle sorti un po’ effimere). Nella promozione di se stesso, Arese ha aperto una strada: non per nulla è stato il primo atleta in Italia ad aver fornito il proprio volto alla pubblicità, spendendosi in lunghe campagne pubblicitarie per la Diadora.

Malgrado tutte le premesse lo indicavano poco adatto a lavorare “in gruppo” (quanto di più necessario per guidare una grande federazione, anzi “la Federazione” come l’eticattava Giulio Onesti), ai più sembrava la persona giusta per traghettare la FIDAL fuori dalle secche nelle quali s’era impantanata a metà anni Novanta. Per di più, valutato anche il gradimento e l’appoggio, non secondario, del CONI (che, malgrado i deludenti risultati prodotti, lo ha addirittura cooptato in Giunta e, oggi, evita qualunque commento su di lui). Come garanzia nei confronti degli scettici, si citavano le indubbie doti imprenditoriali, i successi alla guida della Asics-Italia, una azienda di abbigliamento sportivo che vanta un fatturato annuo di decine e decine di milioni di euro. Non il solo motivo, quest’ultimo, per cui si avanzavano perplessità in nome di un imbarazzante conflitto di interessi, come si usa dire. Rilievi ai quali Arese, con poca eleganza, usa rispondere con citazioni in tribunale piuttosto che adoperarsi per rasserenare, fugando dubbi e perplessità.

Così, percepito inizialmente come l’uomo della provvidenza, “Ciccio” venne eletto – e rieletto – con maggioranze bulgare, superiori al 95 per cento dei suffragi. Come non era accaduto per nessuno dei suoi precedessori, anche per chi poteva vantare capacità dirigenziali ben più pesanti. Un segno dei tempi, si dirà, contrassegnati da un ampio regresso culturale dell’intero sistema sportivo (oltre che da una profonda crisi di vocazione verso la pratica sportiva da parte dei giovani italiani), ma anche la conferma di come l’atletica – un tempo laboratorio di sperimentazione per tutto lo sport nazionale – abbia ormai perduto la propria impronta genetica: la capacità dialettica e il gusto del confronto di idee dai quali soltanto possono nascere programmi e maturare esperienze.

Come siano poi andate le cose in questi sette anni, è noto a tutti. Tanto che ormai la permanenza di Arese alla guida della federazione viene percepita come un errore, destinato a pesare a lungo nel futuro. Scarsamente interessato a progetti di cambiamento, poco presente nella sede federale, evanescente su progetti e innovazioni, inconsistente nel riaffermare la centralità della federazione nei confronti degli atleti, in questi sette anni Arese ha dimostrato coi fatti (purtroppo) di essere la persona meno adatta alla presidenza della FIDAL.

I suoi sette anni di buio costituiscono un periodo enorme in termini sportivi. Ma rappresentano anche un fallimento senza precedenti, una serie mortificante di delusioni da qualunque angolazione, sia organizzativa che agonistica. Segnata anche da un inarrestabile decremento dei praticanti più giovani. Cresce solo il numero dei master, una sorta di spensierato e spendaccione dopolavoro che ha fatto della federazione d’atletica il gerontocomio dello sport nazionale, ma che ha dalla sua il pregio non secondario di consumare una impressionante quantità di materiale sportivo …. E a chi, di professione, fa il venditore di abbigliamento sportivo alla fine potrebbe anche non dispiacere.  

Se poi si intende limitare l’analisi ai soli aspetti tecnici, si inciampa su più d’una piega mortificante, come la decisione di non mandare più una squadra ai mondiali di cross, semplicemente perchè – malgrado le centinaia di corse su strada, il più delle volte allestite senza che la federazione neppure ne venga informata, ma attorno alle quali si muovono interessi economici giganteschi (si pensi alle spese per l’abbigliamento, dalle tute alle scarpe, oltre che ai contributi pubblici e alle tasse di iscrizione) –, non esistono più in Italia atleti di qualità per la corsa lunga. Oppure al Deca-Nation parigino, cui eravamo sempre presenti. Per non parlare poi di quel deserto che è oggi la maratona, benchè da noi se ne organizzino annualmente più d’una sessantina, a solo vantaggio dei corridori africani e dei loro manager che ne traggono profitto.

Ma non basta. Si potrebbero sollevare molti altri argomenti su cui riflettere: ad esempio, in ordine sparso, i difficili e mai risolti rapporti con l’universo militare (cui appartiene il 90% della squadra nazionale …) o i pastrocchi che regolano di volta in volta i campionati per club, militari o meno che siano, le amnesie della segreteria che dimentica di iscrivere gli atleti (si pensi ai casi Schwazer o Hassene Fofana). Lasciando da parte il comparto “scuola” sul quale aleggia un salvifico e gigantesco equivoco che manda tutti assolti. Di questo generale degrado, il penoso sconquasso di Daegu è solo un aspetto. Neppure il più deprimente. All’indomani di ogni delusione internazionale, Arese – che tra le sue tante qualità non vanta certo quella del comunicatore (avete mai letto una sua intervista, una sua dichiarazionea freddo, un suo commento?) – si presenta davanti ai (pochi) giornalisti e, tra imbarazzi e reticenze, annuncia con tono monocorde che ci sarà “una riflessione” e che verranno presi provvedimenti draconiani: “chi ha sbagliato, pagherà”, disse dopo i mondiali di Berlino.

La cronaca, più che la storia, sta a dimostrare il contrario. Dal momento che è difficile oggi credere che Arese (tra le sue numerose incombenze anche la presidenza del Cuneo Calcio 1905, lasciata due anni fa dopo un’altra retrocessione …), sia la persona più adatta ad imprimere quel colpo di volano necessario a ché l’atletica torni ad occupare il “suo” spazio negli interessi della gente comune. In tanto sconquasso, che fa il nostro uomo? Circondato da un consiglio federale un po’ imbelle (non parliamo di sane e opportune dimissioni, ma mai una voce di dissenso, mai un virile pugno sul tavolo); imposto alla segreteria un uomo di propria fiducia, ma senza trascorsi sportivi (è la prima volta che questo accade in oltre un secolo di vita federale); allestito un apparato tecnico di scarsa autorevolezza; licenziati o allontanati coloro non ritenuti in sintonia (Luigi D’Onofrio e il “Golden Gala”, tanto per citare); incapace di gestire al meglio le crisi dei pochi atleti di nome, leggi Howe o Schwazer, e di motivare tutti gli altri, ha finalmente trovato la causa di tanto degrado e l’ha indicata a gran voce: mancano i soldi! Tutto chiarito, finalmente. D’un colpo solo sono stati cancellati i quasi 200 milioni di euro (finanziamenti pubblici: da non dimenticare mai) spesi in questi sette e più anni. Se duecento milioni di euro vi paiono pochi …: un sogno ad occhi aperti per tutte le altre federazioni di atletica. Che vergogna!

Il futuro, dicevano gli antichi – che avevano il dono della saggezza, se non della preveggenza –, posa in grembo agli dei. Il futuro (?) dell’atletica italiana è tutto in grembo al quasi settantenne e arcigno “Ciccio” Arese. Non si può fare proprio nulla per impedirlo?