I sentieri di Cimbricus / Un giorno e mezzo di storia e di arte

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Giovedì 12 Maggio 2023

 

dresda 


“Sono andato in DDR pochi giorni dopo che il Muro era caduto e il paese, più o meno, esisteva ancora. Tappa a Dresda, dai muri ancora calcinati dal fosforo dei bombardamenti alleati dell’ultimo giorno del Carnevale ’45.”

Giorgio Cimbrico

Novembre 1989, turno invernale di Coppa UEFA, Karl Marx Stadt-Juventus. Di lì a poco la città, non lontana dal confine con quella che sarebbe diventata la Repubblica Ceka, sarebbe tornata al vecchio nome, Chemnitz. La Juventus era allenata da Dino Zoff e alla trasferta partecipò anche quel buonanima di Giampiero Boniperti.

“Minchia, minchia, ma qui come va a finire”, si agita Totò Schillaci mentre l’aereo, dopo essersi abbassato per atterrare a Dresda, riprende quota per puntare su Lipsia. Anche lì, disco rosso per neve. Passa uno steward e gli domando cosa succede: “Credo andremo a Berlino, ma anche lì stanno chiudendo per neve”. Ma come siamo messi a carburante? “Non si preoccupi: mal che vada torniamo a Torino”. Totò ascolta e si tranquillizza.

Atterraggio a Berlino Schoenefeld, parte est: la pista comincia ad imbiancarsi. Scendiamo: c’è il piccolo Rui Barros, ci sono i russi Aleinikov e Zavarov. Finiamo alla distribuzione bagagli e passando per i corridoi vediamo una folla eterogenea, come capitava di vedere da quelle parti: cubani, mozambicani, afghani. Sui monitor, immagini del telegiornale: c’è la storia in marcia e noi non ci badiamo, pensiamo solo a come andrà a finire la nostra giornata. Ad esempio, il pezzo di presentazione, … Mi procuro qualche marco, ancora quelli con il martello, il compasso e il fascio di grano, e riesco a telefonare al giornale. La prima volta in DDR, nove anni prima, l’operazione non era riuscita. La caduta ha già portato qualche progresso. Dico che non so se e quando riuscirò a scrivere qualcosa e non riesco a capire se le mie parole sono state ascoltate.

Boniperti decide che è l’ora di andare a pranzo e nell’invito siamo compresi anche noi. Poi, preso atto che il meteo non cambia, decide di puntare sull’obiettivo via terra e ordina dei bus. L’attesa si fa lunga e lui un po’ si incazza. “Dottore, lei deve capire, …”. Alla fine, arrivano e sono un po’ sgangherati, odorosi di benzina a pochi ottani: l’odore dell’est. Uno è per la squadra che va a Karl Marx Stadt, uno per noi che, Deo gratias, siamo a Dresda.

C’è da attraversare, in diagonale, mezzo paese, a velocità molto moderata. Si passa da Zossen, quartier generale della Wehrmacht. Per chi ha la passione per la Seconda Guerra Mondiale, la Germania è un negozio di dolci: basta un nome per far scattare reminiscenze librarie. E’ inverno, comincia a far buio. Righe scritte, zero. Butterò giù l’odissea bianconera usando la modalità, ormai sparita, della “bracciata”, sperando, primo, di riuscire a mettermi in contatto e, secondo, di beccare il mio dimafonista preferito, paziente di fronte ai silenzi che accompagnano le rimuginazioni, i dubbi. Chissà quante ripetizioni, quanti periodi sghembi.

Buio, sobborghi di Dresda, il ponte sull’Elba, qualche cigno che sfida l’acqua gelida. Albergo bellissimo, costruito dai finlandesi. Il telefono funziona. “Bracciata” e finalmente la voce di Giulio, il capo, soprattutto un vecchio amico che non c’è più. “Dove sei? A Dresda? Cazzo, appena puoi vai a vedere com’è combinata. Hai dato il pezzo? Bene”. Anche lui aveva la fissa della Seconda Guerra Mondiale.

Dopo 44 anni avranno ricostruito tutto, immagino. E invece nei quattro passi prima di andare a letto, vedo che è sufficiente girare un angolo per ritrovare muri ancora calcinati dal fosforo che i bombardieri americani e britannici usarono quell’ultima sera di Carnevale del ’45. E il giorno dopo, nel sereno di una fredda giornata, la cupola della Mariakirche appare come colpita da un gigantesco pugno che l’ha smembrata in fette.

La Madonna Sistina, la Venere di Giorgione su cui ha messo la mano anche Tiziano, le grandi vedute di Dresda di Bernardo Bellotto che qui chiamavano Canaletto, come lo zio Antonio Canal. Era la città ideale, voluta e creata dai principi elettori di Sassonia e re di Polonia, e così avevano chiamato il miglior vedutista in circolazione (con lo zio, beninteso …), così bravo che usarono i suoi quadri per ricostruire Varsavia, che tra bombardamenti del ’40 e due insurrezioni, quella del ghetto prima e quella dell’esercito clandestino poi, non esisteva più.

Un giorno e mezzo di storia, arte e di riflessione. Era il caso di distruggere tutta questa bellezza, di massacrare decine di migliaia di persone? Numero esatto, tuttora sconosciuto. Per conoscere meglio la vicenda, consiglio da anni la lettura di “Mattatoio 5” di Kurt Vonnegut, prigioniero di guerra, testimone oculare e messo ad accatastare morti che parevano pezzi di legno carbonizzato.

Il giorno della partita andiamo a Karl Marx Stadt e incrociamo il monumento più significativo della città: un enorme testone dell’uomo di Treviri. E’ nevicato, fa molto freddo e allo stadio il prato sembra un’enorme spugna. Il telefono funziona. Come capitava in quell’epoca molto lontana, dettatura del primo tempo durante l’intervallo, un paio di capoversi a seguire e il cappello finale, partendo dal gol che decide il match e il passaggio del turno. Lo segna Gigi De Agostini, con un rasoterra dal limite.